L’influencer marketing e il rapporto di endorsement tra aziende e influencers: profili giuridici e derive illecite
di Roberta Mazzucconi
Dalla native advertising all’influencer marketing
La dilagante diffusione dei social media, negli ultimi anni in esponenziale crescita, ha portato con sé la creazione di nuove forme di espressione e l’elaborazione di inesplorate tecniche di linguaggio, in costante evoluzione.
In particolare, tale fenomeno ha rappresentato il terreno fertile per la nascita ed il consolidamento di nuove tecniche di comunicazione commerciale, il c.d. “online advertising”.
In tale scenario, i social media svolgono un ruolo di primaria importanza, qualificandosi come canali indispensabili per la costruzione dei rapporti tra azienda e consumatore e divenendo un ponte di diretto contatto tra gli stessi, grazie all’immediata accessibilità ad un numero infinito di contenuti, alla fruibilità ed alla velocità con cui i post possono essere creati, caricati e raggiunti da un numero di utenti potenzialmente illimitato ed in vertiginoso aumento.
Nel mondo dell’online advertising, gli utenti dei social networks – perlopiù millennials – svolgono al contempo il ruolo di consumer ed il ruolo di producer: emerge così il nuovo concetto di prosumer, crasi utilizzata per indicare l’utente che non solo sfrutta le occasioni di acquisto online, ma che diviene a sua volta produttore, o che, spesso – in modo più o meno consapevole – contribuisce alla produzione, attraverso il rilascio in rete di opinioni, feedbacks, reviews aventi ad oggetto i prodotti o i servizi testati [1].
La nascita della categoria ibrida del prosumer risulta parallelamente affiancata dall’emergere di un nuovo genere mediale, costituito da contenuti soggettivamente privati in quanto generati dagli utenti (UGC – User’s generated content), ma oggettivamente imprenditoriali, ossia riguardanti marchi e prodotti [2].
È proprio tale genere mediano a divenire, talvolta, oggetto del native advertising, fenomeno che si sviluppa con l’obiettivo di inserire, senza interruzioni, il messaggio pubblicitario all’interno dei contenuti editoriali “nativi” della piattaforma che li ospita. I contenuti pubblicitari si fondono con i contenuti originari e ne mutano le caratteristiche stilistiche e formali, divenendo un unicum agli occhi dell’utente/consumatore[3].
Le forme più diffuse di native advertising sulla rete sono le in-feed units, le paid search units, i recommendation widgets e, in misura sempre crescente – soprattutto nei settori del fashion, del beauty, e del food & beverage – l’endorsement.
Nella comunicazione digitale commerciale, l’endorsement rappresenta una forma di accreditamento di un prodotto, un brand o un servizio, da parte di soggetti capaci di influenzare i comportamenti d’acquisto dei consumatori/followers, dalla scelta di un prodotto al giudizio relativo a un brand.
In particolare, l’endorsement è la forma di comunicazione commerciale che caratterizza il fenomeno dell’influencer marketing, fenomeno che, secondo la definizione conferita dall’AGCM, consiste nella “diffusione su blog, vlog e social network (come Facebook, Instagram, Twitter, Youtube, Snapchat, Myspace) di foto, video e commenti da parte di bloggers e influecers (ovvero di personaggi di riferimento del mondo online, con un numero elevato di followers), che mostrano sostegno o approvazione (endorsement) per determinati brand, generando un effetto pubblicitario, ma senza palesare in modo chiaro e inequivocabile ai consumatori la finalità pubblicitaria della comunicazione” [4].
I profili giuridici dell’influencer marketing: le derive illecite della pubblicità occulta e il contratto di endorsement
Non trascurabili sono i profili critici e le derive illecite che l’endorsement può assumere, a scapito della libera concorrenza e della tutela del consumatore.
In prima battuta, occorre premettere come non tutte le forme di espressione aventi ad oggetto un prodotto o un brand rappresentino una comunicazione commerciale riconducibile nell’alveo giuridico dell’endorsement: opinioni personali, commenti spontanei, suggerimenti e consigli condivisi da bloggers ed influencers, rappresentano una forma di libera espressione del pensiero (ex art. 21 Cost.) e di libertà artistica (ex art. 33 Cost.) e, pertanto, sono da considerare sempre legittimi.
Le criticità emergono ogni qualvolta il contenuto dei post, aventi ad oggetto un brand connotante un prodotto o un servizio, realizzi una forma di comunicazione commerciale e si qualifichi, dunque, come endorsement, ossia in tutti i casi in cui, tra l’influencer/endorser ed il brand/endorsee, sia posto in essere un rapporto di committenza, concretizzantesi nella conclusione di un contratto atipico di endorsement ovvero in un semplice invio occasionale dei prodotti, da parte dell’azienda, affinchè questi vengano presentati ai followers dell’endorser prescelto.
Tale attività, di per sé chiaramente legittima e costituzionalmente tutelata (ex art. 41 Cost.), può tuttavia arrivare ad assumere delle derive illecite allorquando la finalità pubblicitaria, al suo interno contenuta, non sia palesata e non sia resa immediatamente riconoscibile ai followers/consumatori, apparendo, al contrario, come una condivisione naturale e disinteressata di momenti quotidiani della vita privata degli influencers, autori di un flusso continuo ed indistinto di post, foto, stories [5].
La spontaneità che caratterizza questa nuova forma di marketing non tradizionale è al contempo elemento apprezzato dai followers/consumatori – i quali costruiscono un rapporto di virtuale fiducia nei confronti degli influencers – e dalle aziende – che investono sempre di più su questo tipo di pubblicità – ed elemento che sovente, per la sua insidiosità, solleva dubbi di liceità, connessi alle problematiche della pubblicità occulta [6].
Ed infatti, in tutti i casi in cui la pratica di endorsement realizzi una forma di comunicazione commerciale non dichiarata esplicitamente, non palesata, non resa riconoscibile come tale ai followers, la stessa costituisce una forma di pubblicità occulta, sanzionabile ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. 2 agosto 2007, n. 145, in materia di pubblicità ingannevole e comparativa, il cui testo prevede che “la pubblicità debba essere sempre riconoscibile come tale”.
Il divieto di pubblicità occulta trova, altresì, riconoscimento negli artt. 22 e 23, comma 1, lett. m) del Codice di Consumo [7], rispettivamente in tema di “Omissioni ingannevoli” e “Pratiche commerciali ritenute in ogni caso ingannevoli” e negli artt. 4 e 7 del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale (C.A.), emanato dall’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria (di seguito, IAP), con riferimento alle “Testimonianze” e ai principi di trasparenza e riconoscibilità[8].
L’art. 7 del C.A., in particolare, stabilisce che “Nei mezzi e nelle forme di comunicazione commerciale in cui vengono diffusi contenuti e informazioni di altro genere, la comunicazione commerciale deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti. Per quanto riguarda talune forme di comunicazione commerciale diffuse attraverso internet, i principali idonei accorgimenti sono indicati nel Regolamento Digital Chart”.
Il Regolamento Digital Chart dello IAP, emanato nel 2016 come documento contenente linee guida di mero indirizzo, è divenuto parte integrante del C.A. dal 29 aprile 2019, acquisendo in tal modo valore vincolante nei confronti dei protagonisti del mondo della comunicazione – imprese, agenzie e soggetti privati – che aderiscono, direttamente o indirettamente, al C.A.[9]. Il documento ha come obiettivo quello di svolgere una ricognizione sulle più diffuse forme di comunicazione commerciale nel mondo digitale e quello di fissare criteri per la riconoscibilità della comunicazione commerciale, nel rispetto dell’art. 7 C.A.
Secondo quanto disposto dalle linee guida della Digital Chart, in particolare, gli influencers/celebrities/bloggers devono inserire nella parte iniziale del post e/o entro i primi tre hashtag (#), in modo chiaro e riconoscibile, le seguenti diciture/hashtag: “Pubblicità/Advertising, Promosso da/Promoted by…, Sponsorizzato da/Sponsored by…, In collaborazione con/In partnership with…” [10].
Nella pratica contrattuale, tale onere di disclosure risulta essere posto, a monte, a carico dell’azienda/endorsee la quale, nella stesura del contratto di endorsement, è chiamata a stabilire con esattezza il contenuto dell’obbligazione pretesa, ossia la tipologia dei servizi e delle attività richieste all’endorser, dei contenuti da postare, dei canali di condivisione. In particolare, spetta al brand/endorsee stabilire gli hashtag commerciali, gli hashtag e/o i tag ufficiali e le didascalie che l’endorser dovrà inserire al momento della condivisione di ogni singolo post. A tal riguardo, fondamentale, risulta il richiamo contrattuale al rispetto delle linee guida e delle best practices indicate dalle autorità di regolamentazione della comunicazione, ad esempio dall’AGCM, dallo IAP, dalla FTC [11], con conseguente responsabilità dell’endorser in caso di inadempimento.
Elementi essenziali del contratto di endorsement sono, altresì, la concessione, da parte dell’endorser nei confronti dell’endorsee, dei propri diritti di immagine per la promozione del brand, la definizione di un ambito territoriale di efficacia e l’apposizione di un termine finale di durata delle obbligazioni delle parti. Con riferimento a tale ultimo aspetto, al fine di legare, in modo ancora più stringente, l’immagine dell’endorser al brand, si ricorre, molto frequentemente, alla negoziazione di una clausola di esclusiva, che vincola l’endorser all’uso dei prodotti dell’endorsee – vietando l’uso della concorrenza, almeno in pubblico – per l’intera durata del contratto ovvero, ad esempio, soltanto in occasione di determinati eventi.
Per quanto riguarda, invece, le obbligazioni poste a carico dell’endorsee, queste possono consistere nella semplice fornitura dei prodotti necessari alla realizzazione dei contenuti, oppure in un corrispettivo in denaro, fisso o soggetto a royalties.
Le best practices delineate dall’AGCM a tutela dei consumatori
Con il provvedimento n. 27787 del 22 maggio 2019, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha concluso il primo procedimento istruttorio in materia di influencer marketing, azionato nei confronti di Alitalia S.p.A, Aeffe S.p.A. – società di Alberta Ferretti – e vari personaggi noti ed influencers italiani[12].
La pratica commerciale oggetto del procedimento, avviato su segnalazione dell’Unione Nazionale dei Consumatori, ha riguardato una possibile fattispecie di pubblicità occulta in relazione alla pubblicazione, sui profili Instagram dei professionisti di cui sopra, di post e stories caratterizzati dalla visualizzazione artificiosa del logo Alitalia impresso sui capi di abbigliamento firmati Alberta Ferretti – parte dell’Alitalia Capsule Collection by Alberta Ferretti – senza alcuna menzione alla natura commerciale dei contenuti postati.
L’AGCM, sentito il parere dell’AGCOM, ha chiuso il procedimento senza comminare sanzioni, in ragione della natura satisfattoria delle proposte di impegni presentate dai professionisti coinvolti nel procedimento, ritenute idonee a sanare i possibili profili di illiceità della pratica commerciale contestata.
L’AGCM, nel valutare gli impegni assunti da Alitalia e Aeffe – da una parte – e dai singoli influencers – dall’altra parte – ha delineato, più in generale, alcune best practices indirizzate a tutte le società committenti e a ciascun influencer, al fine di garantire la massima trasparenza e riconoscibilità delle comunicazioni commerciali.
Quanto alle società committenti, l’Antitrust raccomanda la predisposizione di specifiche best practices aziendali, che le posizioni apicali dovranno condividere internamente con le funzioni addette alla comunicazione.
È richiesta, altresì, l’adozione di specifiche linee guida volte a chiarire e fissare le regole di condotta cui gli influencers ingaggiati dalla società dovranno attenersi e che costituiranno parte integrante del contratto di endorsement sottoscritto, con conseguente applicazione di misure sanzionatorie in caso di mancato rispetto delle stesse.
L’AGCM raccomanda, inoltre, l’inserimento, nei contratti di endorsement o di co-marketing, di una clausola standard che vincoli i partner commerciali e gli influencers all’adozione di tutte le cautele necessarie atte ad evitare condotte commerciali scorrette, con eventuale applicazione di meccanismi di deterrenza e sanzionatori – riduzione di corrispettivi e/o penali – e, nei casi più gravi, con il diritto della società committente di risolvere il contratto ed ottenere il risarcimento del danno, previa diffida ad adempiere.
Recentemente, l’AGCM è tornata a pronunciarsi sul tema, con provvedimento n. 28084 pubblicato nel bollettino AGCM n. 11 del 16 marzo 2020, avviato nei confronti di Barilla, dell’account Instagram “Insanity Page” – profilo che conta quasi 3 milioni di followers – e di alcuni micro-influencers e foodbloggers, in occasione della pubblicazione, sui rispettivi profili Instagram, di alcuni post e stories aventi ad oggetto prodotti Barilla della linea Crema Pan di Stelle[13].
L’AGCM – che anche in questa occasione, ha chiuso il procedimento senza accertare l’infrazione, deliberando, tuttavia, l’obbligatorietà degli impegni proposti da ciascun professionista – ha ribadito le best practices già delineate con il precedente provvedimento e ne ha specificato il contenuto, con un espresso richiamo ai principi ricavabili dagli interventi dell’Autorità e da quelli dello IAP, ivi compresa la Digital Chart.
Note
[1] AGCM, Relazione annuale sull’attività svolta, 2016, consultabile al seguente link: https://www.agcm.it/pubblicazioni/dettaglio?id=31fc5b1b-3052-4f78-a075-0b9909180dbb&parent=Relazioni%20annuali&parentUrl=/pubblicazioni/relazioni-annuali .
[2] Cfr. Ciani J., Tavella M., “La riconoscibilità della natura pubblicitaria della comunicazione alla prova del digital: native advertasing tra obbligo di disclosure e difficoltà di controllo”, in Informatica e Diritto, XLIII annata, Vol. XXVI, 2017, n. 1-2, pp. 485-517.
[3] Cfr. Vaccaro C., Conti L. (a cura di), Native advertising. La nuova pubblicità. Amplificare e monetizzare i contenuti online, Ulrico Hoepli Editore S.p.A, Milano, 2016, pp. 50 e ss.
[4] AGCM, Comunicato Stampa del 24 luglio 2017, consultabile al seguente link https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2017/7/alias-8853.
[5] Cfr. Fontana A., Sassoon J., Soranzo R., Marketing Narrativo. Usare lo storytelling nel marketing contemporaneo, Franco Angeli, Milano, 2011, pp. 49 e ss.
[6] Cfr. Giner Mas C., Social Media, bloggers, influencers and their IP implications, webinar EUIPO, Alicante, 7 maggio 2019.
[7] D.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, così come modificato dalla L. 3 maggio 2019, n. 37 e dalla L. 12 aprile 2019, n. 31.
[8] Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale (C.A.), 67° edizione, in vigore dal 10 marzo 2020 (1° edizione in vigore dal 12 maggio 1966) reperibile al seguente link https://www.iap.it/codice-e-altre-fonti/il-codice-il-codice-di-autodisciplina-della-comunicazione-commerciale/.
[9] Regolamento Digital Chart sulla riconoscibilità della comunicazione commerciale diffusa attraverso internet, emanato nel 2016 dall’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria, disponibile qui https://www.iap.it/wp-content/uploads/2016/05/Digital-Chart-IAP-VERSIONE-ONLINE.pdf.
[10] Regolamento Digital Chart, op. cit.
[11] Federal Trade Commission, agenzia governativa statunitense.
[12] AGCM, provvedimento n. 27787, Bollettino n. 23 del 22 maggio 2019, reperibile al seguente link:https://www.agcm.it/dotcmsCustom/tc/2024/6/getDominoAttach?urlStr=192.168.14.10:8080/C12560D000291394/0/E6B624BBD0F6A573C12584150049D1EE/$File/p27787.pdf
[13] AGCM, provvedimento n. 28084, Bollettino n. 11 del 16 marzo 2020, disponibile al seguente link: https://www.agcm.it/dotcmsdoc/bollettini/2020/11-20.pdf.
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