Legal-tech e innovazione nelle professioni legali: la lunga strada da percorrere
di Pietro Fazzini
La sfida dell’innovazione e dello sviluppo del digitale nel settore legale (che si riconduce sinteticamente al concetto di “legal-tech”) sconta ostacoli molto significativi nel confronto con altri settori, anche contigui, in ragione sia delle particolarità oggettive del business sia del modo in cui esso viene condotto, con processi consolidati ormai da decenni. Tutto sommato, leggendo la descrizione dell’“avvocato del futuro” delineata da Richard Susskind già qualche anno fa [1], mi sembra che l’avvocato del presente resti ancora più simile, nei caratteri essenziali in cui conduce la sua professione, cui accenneremo tra un attimo, all’avvocato di cinquanta o cento anni fa, piuttosto che a quella figura ibrida del consulente-imprenditore-tecnologo preconizzata in quell’opera per il nostro futuro prossimo.
Ciò non significa che non ci arriveremo: i segnali di un cambiamento all’orizzonte sono ormai evidenti anche nel nostro Paese e le trasformazioni imposte dall’emergenza Covid potranno rappresentare un potente vettore di accelerazione, ciò nonostante resta complicato fare previsioni sul quando. Tuttavia, gli ostacoli che si frappongono sulla strada di questo cambiamento sono ad oggi numerosi. In questo articolo cercherò sommariamente di rappresentare quelli che a mio modo di vedere sono i principali, per lo meno a livello macroscopico, e di mettere in luce le reciproche interconnessioni tra i medesimi. Per semplicità espositiva li ho ordinati in tre categorie principali.
Business strategy
Il business dei servizi legali è caratterizzato da forti peculiarità, sia dal lato della generazione di profitti e delle strategie di pricing sia da quello dei costi. Sotto il primo profilo, l’attività degli avvocati viene ancora ricompensata, in maniera pressoché prevalente, su base oraria. Anche negli studi internazionali di maggiori dimensioni, che per molti aspetti sono organizzati in maniera più simile alle multinazionali loro clienti che agli studi più tradizionali, il modello di pricing prevalente, in Italia come all’estero, resta ancora quello del billing orario.
Dopo la crisi del 2007, con il taglio dei budget legali delle grandi imprese, la negoziazione con gli studi professionali ne ha progressivamente eroso i margini, favorendo l’introduzione nella prassi di accordi di limitazione del tetto massimo di spesa, a prescindere dalle ore presenti “on the clock”. Si tratta però pur sempre di variazioni, più o meno creative, che non incidono radicalmente sulla strategia di pricing degli studi, dal momento che la rappresentazione dei costi al cliente rimane su base oraria e che tali accordi si limitano a fissare un tetto alle ore effettivamente fatturabili per ciascun progetto. Senz’altro, il taglio delle spese legali costituisce un incentivo per i professionisti a organizzare in maniera più efficiente il lavoro dei team che partecipano a un progetto, tuttavia è difficile immaginare che tale dinamica abbia da sola l’incidenza sufficiente, in assenza di evoluzioni più importanti, per trasformare radicalmente l’organizzazione interna del lavoro. Tali considerazioni sono ancora più accentuate, evidentemente, nel caso degli studi di piccola-media dimensione.
Fintanto che il modello orario, pur nelle sue variazioni, rimarrà il metodo prevalente di pricing delle prestazioni professionali, gli incentivi economici all’innovazione per gli studi continueranno ad essere inevitabilmente bassi: l’efficienza conseguibile tramite di essa difficilmente potrà tradursi in un incremento dei margini, se non per quella limitata parte di recupero delle ore eccedenti i cap, che tuttavia possono realisticamente non giustificare i costi di investimento tecnologico e operativo che, specie nella fase iniziale, saranno senz’altro significativi. Per contro, un incentivo maggiore potrebbe venire congiuntamente con la proposta di offerte di servizi strutturate diversamente, ad esempio sulla base dei modelli del software-as-a-service o fondati su subscription fee, come già accade per altre tipologie di servizi professionali.
Venendo al capitolo dei costi, anche questo è fonte di ostacoli non trascurabili. Il principale è rappresentato dal fatto che alcune particolarità intrinseche del servizio legale, legate soprattutto al carattere “territoriale” del medesimo, rendono più difficile l’individuazione di soluzioni scalabili. L’industria globale dei servizi legali vale 728 miliardi di dollari nel 2020 e si prevede che crescerà di ulteriori 100 miliardi nei prossimi tre anni [2]. Tuttavia, le differenze linguistiche e, soprattutto, le diversità a volte anche radicali tra i sistemi giuridici dei diversi Paesi del mondo comportano di fatto una segmentazione del mercato in tanti sotto-mercati, spesso aventi dimensione di nicchia, come proprio nel caso dell’Italia.
Nel complesso, tali aspetti peculiari rendono più difficile la diffusione di soluzioni a taglia unica, dunque più scalabili e meno costose, all’interno di una stessa firm, soprattutto con riferimento alle giurisdizioni periferiche. Già oggi, i centri di legal innovation che molte grandi insegne legali anglosassoni hanno sviluppato offrono soluzioni anche all’avanguardia ma pensate per le giurisdizioni in cui si trovano i loro head office, che difficilmente possono essere impiegate, ad esempio, al di fuori dei sistemi di c.d. common law. Inoltre, nelle giurisdizioni non anglofone a ciò si aggiunge il problema della lingua, che comporta ulteriori difficoltà nell’adattamento delle soluzioni elaborate dall’head office, in particolare quelle dell’automazione documentale e della document review, che infatti cominciano a diffondersi anche nel nostro Paese ma a un ritmo molto più lento.
Formazione del capitale umano
Un secondo ordine di problemi si deve alla mancanza da parte degli avvocati di adeguate competenze, sia per contribuire all’elaborazione sia spesso anche per implementare nuove soluzioni tecnologiche. Tale impreparazione deriva in larga parte dal fatto che l’offerta formativa universitaria non si è ancora adeguata, o lo sta iniziando a fare solo ora, alle nuove esigenze del mercato. Tale problema, diversamente da quelli evidenziati nel precedente paragrafo, è sostanzialmente trasversale a tutti i Paesi, almeno per ora, con eccezioni ancora limitate e sprovviste di dimensione critica.
In Italia, il problema è senz’altro accentuato dalla tradizionale rigidità del sistema universitario, anche a causa di un programma formativo centralizzato e imposto dai Ministeri ai singoli atenei, che senza dubbio ostacola le iniziative di quelli più virtuosi e all’avanguardia e dunque rallenta qualsiasi processo di innovazione ed evoluzione [3].
In più, gli avvocati italiani scontano l’effetto negativo di un percorso di formazione particolarmente (e ormai, eccessivamente) lungo e poco diversificato, ancora incentrato sull’insegnamento delle materie giuridiche tradizionali e la frequente sovrapposizione dei programmi di molte materie (penso, ad esempio, al rapporto tra corsi “opzionali” specialistici e le materie istituzionali di riferimento). Poco o nessuno spazio è lasciato, invece, con qualche eccezione, a materie afferenti altri settori: economia, scienze politiche e sociali, statistica, informatica. Con il risultato, direi paradossale, che la formazione professionale comincia dopo la laurea e sempre più spesso è demandata a master e corsi di specializzazione, soprattutto all’estero, dagli ingenti costi. Diversamente, il più articolato sistema di istruzione anglosassone consente ai futuri professionisti legali di conseguire naturalmente una maggiore ibridazione della propria preparazione. Non è raro trovare studenti della law school con titoli di bachelor (quello che da noi sarebbe la laurea triennale) in ingegneria, scienze, informatica, economia, matematica e statistica.
Negli ultimissimi anni anche in Italia stanno nascendo, in seno ad alcune facoltà di giurisprudenza, iniziative interessanti che guardano alla formazione specifica di profili destinati al mondo del legal tech o della law and technology. Si tratta tuttavia di offerte ancora principalmente rivolte agli studenti post-lauream: quindi con i limiti sopra accennati, oltre che con una capacità di penetrazione del mercato universitario molto limitata, se confrontata con i corsi di laurea di base. L’impressione è che, di fronte alla dimensione epocale del cambiamento di cui si sta parlando, soltanto una risposta organica e su larga scala possa ottenere risultati soddisfacenti, al netto comunque del tempo che servirà per osservare i primi risultati, anche qualora si agisca oggi.
Il metodo nella conduzione delle professioni legali
Questo è forse l’aspetto più complesso e interessante dei tre affrontati in questo articolo ed è oltretutto in buona parte connesso e consequenziale agli altri due che precedono, soprattutto al secondo. Mi riferisco al fatto che la sfida posta dal legal-tech non implica soltanto una profonda riflessione sulle possibilità di impiego di soluzioni tecnologiche più efficienti alla professione legale, ma richiede anche un cambiamento ben più significativo nel modo di pensare, scrivere (e qui mi riferisco soprattutto al settore della policy e della produzione normativa) e applicare il diritto.
Partendo dal primo aspetto, una larga fetta dell’innovazione giuridica passa attraverso l’automazione dei processi, in tutti i settori: basti pensare, ad esempio, all’analisi documentale nell’attività professionale, all’auto-implementazione di documenti giuridici semplici tramite soluzioni basate su smart-contracts, alle soluzioni c.d. reg-tech nell’ambito della compliance e delle attività regolamentate. In queste applicazioni, pur molto eterogenee tra loro, il presupposto comune è che il diritto sottostante, inteso come lo schema sintattico e l’articolazione logica con cui il linguaggio naturale viene utilizzato per esprimere concetti giuridici, possa essere “tradotto” in codice informatico.
Da questo punto di vista, mi pare di poter dire che la qualità della produzione legislativa italiana, spesso criticata non senza fondamento perché troppo bizantina, costituisca un pessimo punto di partenza. Non parlo qui dei contenuti, sui quali non può essere fatta alcuna generalizzazione, quanto piuttosto alle tecniche di legislazione, basate su una costante stratificazione normativa, rinvii normativi spesso poco intellegibili agli stessi professionisti del diritto, nei quali si perde il significato voluto dal legislatore o se ne creano involontariamente di diversi. Ma vi è di più: oltre alla tecnica formale, è problematica, da questo ed altri punti di vista, anche la tendenza del legislatore italiano a ricorrere eccessivamente a una costruzione normativa fatta di un elevato numero di regole di dettaglio ed eccezioni.
Queste caratteristiche ostacolano l’automazione giuridica basata su algoritmi, almeno sotto due fondamentali profili. In primo luogo, l’involuzione sintattica e logica rende più complessa la trasposizione delle regole in linee di codice: l’esperienza di chi opera nel settore dice che spesso già la sola trasposizione di una disposizione giuridica in una rappresentazione intermedia come una slide di presentazione o un albero decisionale risulta più difficile del dovuto. Per contro, i corpi di leggi più lineari, e più vicini al linguaggio fatto di “if”, “else” e “then” tipico delle macchine, sono paradossalmente quelli più risalenti, come il codice civile (nelle parti meno modificate nel corso del tempo). In secondo luogo, perché l’addestramento degli algoritmi (training), che in una prima fase deve avvenire necessariamente in forma manuale (cioè tramite l’inserimento di informazioni verificate, rispetto alle quali viene confermato il risultato corretto che la macchina deve restituire), è senz’altro più complesso peggiore è la qualità delle informazioni, in termini di intelligibilità.
In altri termini, occorre che chi si occupa della produzione normativa nel nostro Paese a tutti i livelli cominci a ragionare con la logica e gli obiettivi del c.d. legal design, ovverosia quella disciplina che mira a rendere i contenuti legali provenienti da professionisti del diritto [4]. Una linea guida interessante in questo senso è offerta dall’iniziativa Rules as a Code promossa dall’Observatory of Public Sector Innovation (OPSI) dell’OCSE [5].
Tuttavia, l’inclinazione opposta manifestata in tempi recenti dal nostro Legislatore ha radici anche in alcuni degli altri ostacoli sopra illustrati, tra cui il deficit formativo in competenze collaterali e la scarsa attitudine al cambiamento (tradizionalmente ancora più accentuata nel nostro settore pubblico). Ciò significa anche, però, per vedere il bicchiere mezzo pieno, che i miglioramenti ottenuti su alcuni di questi fronti hanno buone possibilità di generare effetti positivi anche su altri.
Anche l’ambiente delle professioni legali sconta ancora, pur rispondendo a chiare logiche di mercato, una marcata distanza da un impiego ideale del legal design. Anche nelle realtà più strutturate il modo di condurre il lavoro rimane ancorato a processi e routine che ostacolano, spesso anche involontariamente, l’innovazione. Ad esempio, ancora poco efficiente è la creazione di standard contrattuali applicabili in modo uniforme, dentro e fuori i singoli studi, per le medesime tipologie di operazioni, nonché la costruzione di librerie di precedenti e di procedure comuni, che rappresentano il primo necessario passo verso l’automazione di molti servizi legali ripetitivi.
Conclusioni
Quanto sopra esposto è poco più che un elenco di alcuni degli aspetti critici che caratterizzano lo stato attuale delle professioni legali nel nostro Paese, nell’ottica di immaginare la possibilità di una transizione più che mai necessaria verso un modo più moderno ed efficiente di continuare a fornire servizi giuridici.
L’impressione complessiva è che lo svecchiamento delle professioni giuridiche si prospetti come impresa complicata, e forse proprio per questo ancor più necessaria, a dispetto di quanto ancora credono molto dei diretti protagonisti, cioè i professionisti stessi. Inoltre, l’interconnessione di molti degli aspetti illustrati rende quanto mai necessario un approccio organico e integrato, in aggiunta all’effetto segnalatorio positivo sul mercato che possono avere anche le iniziative dei singoli.
Al tempo stesso, occorre bilanciare la programmazione anche sotto il profilo temporale, contemperando iniziative di breve e di lungo termine: senza le prime sarebbe difficile conseguire incentivi sufficienti per aprirsi al cambiamento; senza le seconde, specie per quanto riguarda la formazione del capitale umano, qualsiasi risultato ottenuto difficilmente riuscirà a consolidarsi in modo duraturo.
Bibliografia:
[1] R. Susskind, L’avvocato di domani, Milano, 2019.
[2] Fonte: Statista, 2020 (Size of the legal services market worldwide from 2015 to 2023), https://www.statista.com/statistics/605125/size-of-the-global-legal-services-market/#:~:text=In%202021%2C%20the%20global%20legal,billion%20U.S.%20dollars%20in%202020).
[3] P. Marchetti – M. Ventoruzzo, Giuristi, la sfida del Covid si vince solo con le tre «I», Corriere della Sera, 23 novembre 2020.
[4] M. Hagan, 6 Core Principles for Good Legal Design, 7 novembre 2016, https://medium.com/legal-design-and-innovation/6-core-principles-for-good-legal-design-1cde6aba866
[5] J. Mohun – A. Roberts, Cracking the Code: Rulemaking for humans and machines, 14 ottobre 2020, https://oecd-opsi.org/report-launch-opsi-innovation-primer-on-rules-as-code/, il cui dichiarato obiettivo è quello di «create an official, machine-consumable version of some types of government rules, to exist alongside the existing natural language counterpart».
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