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È legale registrare le conversazioni tra colleghi?

L’eccezione al principio del consenso secondo la Cassazione. Commento alla sentenza Cass. Civ. Sez. Lavoro n. 11322/2018.

di Sara Corsi

Nel 2013 una società del settore della distribuzione farmaceutica, sostenendo che alcuni lavoratori avevano lamentato di aver visto un dipendente scattare continuamente foto, registrare video e conversazioni sul luogo di lavoro senza la loro autorizzazione, decide di sanzionarlo con un licenziamento disciplinare.

Il dipendente agisce contro il licenziamento, ma il Tribunale competente rigetta il ricorso. Il lavoratore si rivolge dunque alla Corte d’Appello di L’Aquila. Dalla ricostruzione fattuale, emerge che le registrazioni erano state consegnate dal lavoratore ad un referente aziendale in sede di un colloquio per una precedente contestazione disciplinare, al fine di chiarire le sue ragioni. L’azienda aveva informato solo successivamente i colleghi – che nulla avevano sospettato prima – dell’accaduto. I fatti dimostrano che il lavoratore aveva adottato tutti gli accorgimenti necessari per preservare le registrazioni da qualsiasi forma di pubblica diffusione, utilizzandole con lo scopo unico di tutelare la propria posizione lavorativa.

Il co. 1 lettera f) dell’art. 24 D.lgs. 196/2003 stabilisce, in deroga al principio generale del consenso, che il trattamento dei dati personali, può essere eseguito anche in assenza di consenso degli interessati, se è finalizzato a far valere o difendere un diritto, esclusivamente per tale finalità e per il periodo strettamente necessario al suo perseguimento. Nel caso di specie il diritto in gioco, è il diritto di difesa del lavoratore, che si antepone al consenso dei soggetti coinvolti nelle registrazioni.

La Corte d’Appello pertanto non ascriveva al lavoratore alcuna violazione della privacy, escludendo anche qualsiasi responsabilità penale a suo carico. Il licenziamento veniva di conseguenza ritenuto illegittimo, in quanto sproporzionato rispetto ai comportamenti contestati che non costituiscono un inadempimento degli obblighi contrattuali tale da decretare la fine immediata del rapporto di lavoro; la società avrebbe potuto – al massimo – irrogare una sospensione disciplinare. La società viene condannata, con sentenza n. 1298/2015 al risarcimento di un’indennità di 15 mensilità.

L’azienda impugnava la sentenza con un ricorso incidentale in Cassazione, contestando l’erronea o mancata applicazione dell’art. 2119 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. che avrebbe portato la Corte a considerare il comportamento del lavoratore come inidoneo a ledere irrimediabilmente il vincolo di fiducia, e degli artt. 4, 13, 23 e 24 del D.lgs. n. 196/2003 in quanto non sarebbero da riconoscersi le finalità difensive, poiché al lavoratore non era richiesto di produrre prove in una sede giudiziaria.

Anche il lavoratore ricorreva tuttavia contro la sentenza dell’Appello: la decisione, infatti, pur avendo escluso che egli fosse responsabile di violazioni della privacy, e pur avendo smentito l’esistenza delle segnalazioni dei colleghi (circostanza su cui si fondava l’atto espulsivo disciplinare) non aveva sancito l’insussistenza del fatto materiale alla base del licenziamento. A tale riconoscimento doveva seguire la reintegrazione, applicando il co. 5 dell’art. 18 della L. n. 300/1970, novellato dalla L. n. 92/2012. Il Tribunale limitandosi alla tesi della sanzione sproporzionata, aveva invece optato per la mera tutela risarcitoria.

La Corte di Cassazione con la sentenza 11322/2018 rigettava il ricorso incidentale della società e accoglieva quello del lavoratore. Con quali motivazioni?

La Cassazione ribadendo la sussistenza dell’ipotesi derogatoria di cui al co. 1 lettera f) dell’art. 24 d.lgs. 196/2003, precisa che il trattamento dei dati personali è lecito anche in assenza di consenso degli interessati quando è finalizzato a far valere o difendere un diritto, sia in sede giudiziaria che per svolgere investigazioni difensive (legge n. 397/2000). Alla Corte non sovviene infatti, come l’impresa possa considerare il diritto di difesa correlato alla sola sede processuale, dal momento che il codice di procedura penale lo riconosce anche in capo a chi non è ancora parte di un procedimento. Si pensi ad alcune delle investigazioni difensive ex art. 391 bis c.p.p. e ss., che possono esercitarsi prima dell’eventuale instaurazione di un procedimento penale, oppure ai poteri processuali della persona offesa, che «ancor prima di costituirsi parte civile – ha il diritto, nei termini di cui all’art. 408 c.p.p. e ss. – di essere informata dell’eventuale richiesta di archiviazione», opporsi e ricorrere in Cassazione contro il provvedimento di archiviazione emesso senza previa fissazione dell’udienza camerale.

Dunque trattandosi di una condotta lecita perpetrata con la finalità dell’esercizio del diritto di difesa, non integra l’illecito penale ai sensi dell’esclusa punibilità dell’art. 51 c.p..

Le registrazioni delle conversazioni sono da considerarsi una fonte di prova. Non procurandosele il lavoratore non avrebbe avuto altri strumenti per tutelare la propria posizione lavorativa, anche in ragione di un contesto difficile, caratterizzato da un conflitto con i colleghi “di rango più elevato” e precedenti contestazioni disciplinari a suo carico.

Circa il ricorso del lavoratore la Cassazione si esprime favorevolmente. L’attività, come sancito dalla sentenza di merito, non solo non poteva essere giusta causa di licenziamento, ma a lettura di un’interpretazione più restrittiva, neanche costituire oggetto di un provvedimento disciplinare, essendo la semplice traduzione di un legittimo esercizio del diritto di difesa. Pertanto la Cassazione decretava l’insussistenza del fatto materiale e, considerando non leso il rapporto fiduciario, disponeva la reintegrazione del lavoratore.

In conclusione il principio del consenso al trattamento dei dati personali da parte degli interessati viene compresso allo scopo di garantire un pieno dispiegamento del diritto alla difesa.

Questa sentenza segna un nuovo orientamento della Corte?

No, la sentenza n. 11322/2018 ricorda come più volte la Cassazione si sia pronunciata sul principio del consenso del titolare dei dati personali che subisce «deroghe ed eccezioni quando si tratti di far valere in giudizio il diritto di difesa, le cui modalità di attuazione risultano disciplinate dal codice di rito» (Cass., Sez. U. n. 3034/2011). Ed ancora, in ambito più strettamente lavoristico, (v. Cass. n. 27424/2014, ed i richiami in essa contenuti a Cass. n. 9526/2010, Cass. n. 271572008. Sezioni penali: Cass. pen. n. 31342/2011; Cass. pen. n. 16986/2009; Cass. pen. n. 14829/2009; Cass. pen. n. 12189/2005; Cass. pen., Sez. U., n. 36747/2003) è stato ulteriormente precisato che la registrazione audio di un colloquio tra presenti, ad opera di un soggetto partecipe protagonista della conversazione, estraneo agli apparati investigativi, legittimato a rendere testimonianza nel processo, ha natura di prova ammissibile nel processo civile del lavoro, così come in quello penale.

E se il caso si proponesse dopo l’entrata in vigore del GDPR, normativa in cui il principio del consenso dell’interessato sembra essere il perno centrale, l’esito della sentenza varierebbe?

Anche con l’entrata in vigore del nuovo Regolamento europeo sul trattamento dei dati personali, la tutela dei diritti di riservatezza deve sottostare ad una logica di bilanciamento. In particolare nell’ambito dei rapporti di lavoro, lo stesso Regolamento, all’art. 88 prevede che gli Stati membri predispongano norme e dunque anche deroghe, più specifiche, tese alla protezione della dignità umana, degli interessi legittimi e dei diritti fondamentali degli interessati ai fini dell’esercizio e del godimento, individuale o collettivo, dei diritti e dei vantaggi connessi al lavoro. L’esito della sentenza dunque non potrebbe configurarsi diversamente non essendo possibile valutare il consenso del titolare al pari del diritto di difesa, un diritto di rango superiore, inviolabile e fondamentale, protetto dall’art. 24 Cost., che non si riferisce esclusivamente alla tutela individuale ma racchiude in sé anche l’interesse pubblico, di pretesa punitiva dello Stato. Seppure il proliferare di Carte di valori e normative speciali, tenda a liquefare le differenze assiologiche tra diritti, le presunte violazioni alla privacy devono confrontarsi con la tassonomia dei diritti, un ancora del costituzionalismo di cui, a tutt’oggi non si può e non si deve fare a meno. La bussola per i giudici è contenuta nella stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ossia i principi di proporzionalità e quello di rispetto del contenuto essenziale.


Fonti:

  • Sentenza Cass. Civ., Sez. Lav. n. 11322/2018
  • Sentenza Tribunale di Vasto n. 102/2015;
  • Sentenza Corte d’Appello di L’Aquila n. 1298/2015;
  • Sentenza Cass. n. 27424/2014;
  • Sentenza Cass. Sez. Un., n. 3034/2011
  • Sentenza Cass. Pen., n. 31342/2011;
  • Sentenza Cass. n. 9526/2010;
  • Sentenza Cass. Pen., n. 14829/2009;
  • Sentenza Cass. Pen., n. 16986/2009;
  • Sentenza Cass., n. 27157/2008;
  • Sentenza Cass. Pen., n. 12189/2005;
  • Sentenza Cass. Pen., Sez. Un., n. 36747/2003.

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