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Le potenzialità e le problematiche afferenti l’utilizzo dei Big Data in materia di diritti umani

di Lorenzo Nosari

 Introduzione

Con l’adozione della Carta delle Nazioni Unite nel 1945 e la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani nel 1948, l’osservanza degli human rights è diventata una delle principali preoccupazioni internazionali. Secondo il famoso studioso di diritti umani Louis Henkin, la Carta U.N. “ha inaugurato una nuova legge internazionale dei diritti dell’uomo”.

A seguito delle atrocità commesse durante la Seconda Guerra Mondiale, l’obiettivo principale delle Nazioni Unite è stato quello di promuovere la pace in ambito internazionale e la prevenzione dei conflitti. Eppure, dalla metà del XX secolo, il sistema così creato ha trascurato il suo obiettivo originale di prevenzione, promuovendo, invece, quello della protezione. Mentre questo secondo aspetto, attraverso il costante controllo delle attività internazionali, può in teoria incentivare gli Stati a non violare le norme poste a tutela dei diritti umani, le Nazioni Unite dovrebbero investire in maniera più incisiva nelle strategie preventive. Secondo quanto riportava uno dei precedenti Alti commissari U.N. per i diritti umani, Bertrand Ramcharan, la protezione ha una dimensione preventiva, una dimensione mitigatoria e una dimensione compensativa. Fino ad ora l’accento è stato posto sulla mitigazione e su limitati rimedi e c’è stato, invece, poco lavoro e impegno sulle strategie preventive, anche se è da sottolineare che, durante il suo mandato da segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon si è impegnato a promuovere un approccio preventivo circa la tutela dei diritti umani. Tutto ciò deve cambiare: le strategie preventive in materia di diritti umani devono diventare il manifesto principale del futuro.

Esiste un numero limitato di programmi e procedure volti specificamente a prevenire le violazioni dei diritti umani. Ad esempio, gli organismi istituzionali che traggono legittimazione dai trattati sui diritti umani hanno sviluppato una procedura d’urgenza per reagire a situazioni di imminente gross violation. Inoltre, il monitoraggio della conformità dello Stato alle norme a tutela dei diritti umani può servire da sistema di allerta precoce per abusi gravi. Ramcharan tuttavia sostenne che, anche qualora ci fossero state delle strategie preventive sui diritti umani, la loro efficacia sarebbe stata comunque molto limitata. Un primo segnale di cambiamento avvenne alla fine del 2013, quando le Nazioni Unite lanciarono l’iniziativa Human Rights up Front (HRuF), al fine di garantire azioni più tempestive ed efficaci per prevenire o rispondere a violazioni dei diritti umani su larga scala. Per realizzare gli obiettivi di questa nuova iniziativa, è fondamentale per la comunità internazionale investire in modo significativo in un approccio preventivo proattivo. Nuove forme di esperienza e tecnologia, come lo sviluppo di sistemi di raccolta dati, analisi ed elaborazione di indicatori in grado di rilevare potenziali violazioni gravi dei diritti umani, possono aiutare a riorientare le normative internazionali in materia verso quell’originario scopo di prevenzione.

Le potenzialità dei Big Data come strumento di prevenzione delle violazioni

Una tecnologia poco utilizzata, ma potenzialmente dirompente per la previsione delle violazioni dei diritti umani risponde al nome di Big Data. Essi giocano un ruolo fondamentale nell’economia globale, con aziende che utilizzano comunemente l’analisi dei dati per capire le preferenze dei clienti, identificare le tendenze, innovare nuovi modelli di business, aumentare la loro produttività, minimizzare i rischi e migliorare il proprio processo decisionale. Mentre i Big Data vengono sempre più utilizzati in vari settori del diritto, la loro applicazione in ambito internazionale sui diritti umani è relativamente nuova. Gli strumenti analitici possono essere utilizzati per filtrare grandi quantità di dati e, così, identificare segnali di potenziali minacce, prevedendo violazioni come efferatezze di massa. Le iniziative volte all’utilizzo sempre maggiore dei Big Data nel campo internazionale dei diritti umani sono state limitate nell’ambito di una particolare area geografica e di uno specifico tipo di violazione e sono state supportate, in gran parte, da una partnership ad hoc tra società private, ONG e accademici. Molti progetti internazionali esistenti e recenti rientrano nell’area di sviluppo e utilizzo di questa tecnologia: già nel 2009 le Nazioni Unite hanno lanciato un’iniziativa denominata Global Pulse, la quale riunisce competenze dall’interno e dall’esterno dell’organizzazione per sfruttare i vantaggi derivanti dai dati digitali e dall’analisi in tempo reale per affrontare le nuove sfide con azioni più efficaci. Il potere predittivo insito nei Big Data può potenzialmente facilitare l’attività dei sistemi di allarme e fornire una conoscenza in tempo reale delle violazioni dei diritti umani, delle emergenti crisi umanitarie e altro ancora. Uno dei settori che ha beneficiato maggiormente di questo approccio ai dati è stato quello sanitario: ad esempio, Pulse Lab Kampala, il primo innovation lab in Africa, utilizza l’analisi dei dati per combattere i focolai di malattie in Uganda, grazie a uno strumento che ha sviluppato al fine di analizzare i dati raccolti centralmente dal Ministero della Salute ugandese e produrre la visualizzazione degli stessi che contengono informazioni su fattori di rischio come le precipitazioni, la densità di popolazione o la mobilità della stessa. Tracciando l’aumento delle infezioni in diverse aree del paese in tempo quasi reale, tale strumento può consentire risposte più rapide e più coordinate per contrastare il pericolo di nuovi focolai. Un altro progetto innovativo, guidato da Flowminder, società senza scopo di lucro con sede in Svezia, ha analizzato i movimenti degli individui attraverso i dati anonimizzati dei cellulari per prevedere la diffusione di colera ad Haiti dopo il terremoto del 2010. Queste informazioni hanno permesso alle agenzie di soccorso di mobilitare le risorse sanitarie e di indirizzarle verso le zone più a rischio, ottenendo una miglior cooperazione. Un altro progetto degno di nota è sicuramente il Syria Tracker, un sistema di mappatura delle crisi basato sul crowdsourcing dei report di testo, foto, video, e tecniche di data mining per formare una mappa in tempo reale del conflitto siriano da marzo del 2011. Syria Tracker è capace di raccogliere dati e illustrare le tendenze collegate con la violenza, aiutando in questo modo le squadre di soccorso e i cittadini a reagire alle crisi umanitarie in atto. Oltre allo sviluppo in ambito internazionale, i Big Data stanno emergendo anche come strumento potenzialmente utile per contrastare e prevenire la tratta di esseri umani e la schiavitù. Ad esempio, il progetto no profit Polaris ha collaborato con la società Palantir Technologies per sfruttare l’analisi dei dati per identificare modelli chiave in questo settore. Poiché la tratta di esseri umani è una questione particolarmente legata a complesse catene di approvvigionamento globali, le quali spesso includono migliaia di fornitori che sono difficili da monitorare, l’analisi dei dati può fornire uno strumento efficace per scoprire situazioni sensibili che pongono rischi per i diritti umani. Infine, un database sui casi di schiavitù, compilato da Made in a Free World in collaborazione con Ariba Network, utilizza un algoritmo di rischio per identificare le situazioni inerenti al lavoro forzato o al lavoro minorile a livello di produzione dei beni. La sua analisi predittiva aiuterà le società a identificare con più esattezza la probabile origine dei loro sub-prodotti e la probabilità di violazioni dei diritti umani in ogni fase del processo produttivo, finanche all’estrazione delle materie prime. Oltre a cambiare dove e come vengono raccolti i dati afferenti i diritti umani, i Big Data potrebbe anche influenzare l’intero iter dietro l’elaborazione dei dati relativi a tale materia. Le nuove tecnologie consentono la raccolta di molte più informazioni di quante siano possibili con le tecniche tradizionali, le quali si basano prevalentemente su colloqui con vittime, testimoni e autori di violenze come fonte primaria di conoscenza dei fatti. Ciò può influire sul modo in cui vengono create le prove e sul modo in cui vengono gestite e utilizzate. In questo modo, fornire l’opportunità alle persone ordinarie di indagare sulle violazioni dei diritti umani è una rivoluzione: quelli che in passato erano i soggetti di indagine degli human rights ora hanno il potenziale per essere soggetti agenti a pieno titolo, evidenziando così una dimensione nuova in ambito internazionale che potrebbe facilmente definirsi partecipativa.

I rischi legati all’utilizzo dei Big Data

Mentre i Big Data offrono un grande potenziale per rifocalizzare il regime internazionale dei diritti umani verso la prevenzione, esistono dei rischi nell’avanzato utilizzo di un approccio basato sui dati. Un primo rischio è che l’uso di questo strumento possa comportare ulteriori violazioni dei diritti umani nel processo di prevenzione di altre violazioni. La raccolta e l’uso di determinati dati possono di per sé costituire una violazione di determinati diritti umani, in particolare il diritto alla privacy, relativamente al consenso informato. Le persone potrebbero non aver dato il consenso per la raccolta di alcuni dati o il loro uso in particolari contesti. Questo è particolarmente rilevante perché i soggetti, ai quali i dati si riferiscono, potrebbero non essere veramente a conoscenza dei dati che stanno condividendo, di quali organizzazioni ne abbiano accesso e gli usi che ne saranno fatti. Una delle situazioni più comuni è quando le persone hanno involontariamente dato il loro consenso alla raccolta e uso dei dati generati dal web semplicemente spuntando una casella, senza rendersene conto o senza leggere i termini di utilizzo del servizio. Inoltre, anche se viene fornito il consenso informato, potrebbe essere difficile o impossibile per le persone riuscire a revocare il consenso in un secondo momento, in quanto potrebbero essere poco chiari i canali attraverso i quali agire. Con l’ubiquità della tecnologia e gli infiniti flussi di dati prodotti dagli individui in quasi tutti gli aspetti della vita quotidiana, il rischio che questi vengano raccolti e usati impropriamente, senza la conoscenza del soggetto stesso, aumenta esponenzialmente. Vi è anche la preoccupazione che gli Stati possano utilizzare i dati del settore privato per impegnarsi in attività di sorveglianza elettronica, utilizzando il pretesto di proteggere i diritti umani, mentre alcuni potrebbero sostenere che tali procedure siano un compromesso necessario in cambio della prevenzione di gravi violazioni, come la schiavitù o la tratta di esseri umani. Il principio di proporzionalità dovrebbe essere applicato in tale contesto, per cui l’utilizzo dei dati dovrebbe essere necessario e in proporzione al beneficio del loro impiego. La quantità e il dettaglio dei dati raccolti e utilizzati dovrebbero essere quanto è ragionevolmente necessario per raggiungere l’obiettivo della prevenzione delle violazioni dei diritti umani. Altro profilo problematico risiede probabilmente nella discutibilità dei vantaggi derivanti dall’analisi dei dati: è impossibile affermare, con assoluta certezza, che la loro raccolta e uso impedirà ogni particolare rischio per i diritti umani.

Oltre a questo, è da rilevare anche la questione relativa a chi dovrebbe determinare il giusto equilibrio tra tutela e utilizzo: a seconda del soggetto decidente, l’importanza attribuita a uno o all’altro aspetto varierà considerevolmente.

Un ulteriore rischio nell’impiego dei Big Data nell’ambito di cui si sta trattando è che tale strumento potrebbe privilegiare determinati diritti soggetti a misurazione quantitativa, tralasciando l’effettiva interpretazione della situazione concreta. Numerosi progetti, a esempio, si sono concentrati sulla prevenzione di macro violazioni, ossia violazioni dei diritti umani su larga scala che colpiscono molte persone, come le crisi umanitarie, spesso a spese di micro violazioni, ossia violazioni individualizzate che si verificano su una scala più piccola. L’aggregazione dei Big Data, infatti, tenderà a rilevare quelle violazioni di diritti umani che si verificano su vasta scala e che colpiscono un gran numero di persone.

Conclusioni

Da quanto fin qui esposto, è evidente che siano necessarie future ricerche per massimizzare i benefici e minimizzare i rischi legati all’adozione di un approccio basato sui Big Data ai diritti umani. I quesiti da porsi sono molti: quali potrebbero essere le implicazioni nei paesi sviluppati rispetto ai paesi in via di sviluppo (ad esempio, l’approccio proposto sarà più efficace in un contesto rispetto all’altro)? Quali rimedi giuridici potrebbero essere invocati in caso di violazione dei diritti umani nel contesto di elaborazione di questa grande quantità di dati? Che ruolo potrebbero svolgere le organizzazioni umanitarie internazionali?

I Big Data dovrebbero integrare, ma non sostituire, gli strumenti a tutela dei diritti umani e dovrebbero essere analizzati in relazione ad altre fonti di dati, come, ad esempio, la ricerca sul campo. Un approccio che comprenda sia strumenti quantitativi che qualitativi è quindi necessario.


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