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L’uso del marchio d’impresa da parte dell’Artificial Intelligence

Prime riflessioni sui profili di illiceità della condotta informatica

di Chiara Bellini

Grazie all’innovazione tecnologica, le piattaforme di vendita online offrono processi di acquisto automatizzati sempre più sofisticati, in grado di fidelizzare la clientela e massimizzare le vendite dei prodotti e dei servizi.   Siti come eBay o Amazon, infatti, sfruttano software capaci di “supportare” il consumatore nelle scelte di acquisto, non solo attraverso la comparazione delle offerte su parametri predefiniti, ma anche attraverso la selezione dei prodotti più interessanti in base al background di spesa ed alla navigazione in rete.

In tale quadro, l’Intelligenza Artificiale assume un ruolo fondamentale, poiché acquisisce, memorizza ed elabora i dati necessari ai fini della presentazione del suggerimento di acquisto più consono per il consumatore o, addirittura, ai fini dell’acquisto automatico autorizzato a monte dal soggetto fisico.

Tra gli innumerevoli dati processati dall’Intelligenza Artificiale, vi sono anche i marchi d’impresa, considerati dal software alla stregua di tutti gli altri dati. I segni distintivi, infatti, vengono impiegati dal medesimo in funzione dell’analisi che questo è chiamato a svolgere per la selezione dei prodotti di maggior gradimento, insieme a tutte le altre informazioni.

In tale quadro, sorge spontaneo chiedersi se l’Intelligenza Artificiale ponga in essere un “uso” del marchio rilevante ai sensi degli artt. 10 della Direttiva (UE) 2015/2436 e 9 del Regolamento (UE) 2017/1001.

La risposta a tale quesito non appare agevole, in quanto l’avvento della rete impone una riformulazione in termini del tutto nuovi della definizione della nozione di “uso” del segno.

Vero è che le succitate norme, prevedendo il diritto del titolare di vietare a terzi l’utilizzo del segno nella corrispondenza commerciale e nella pubblicità, paiono prestarsi molto bene al caso di specie, considerato da un lato che il servizio di suggerimenti mirati pone in risalto alcuni annunci rispetto ad altri, e considerato dall’altro che la giurisprudenza della Corte di Giustizia si è orientata nel senso di ravvisare la contraffazione anche laddove chi utilizza il marchio altrui non sia proprietario dei beni oggetto di comunicazione commerciale.

Si deve dunque partire dal comprendere se l’Intelligenza Artificiale che suggerisce l’utente assume, in tal contesto, lo stesso ruolo di “assistente alla vendita” dei punti vendita fisici, limitandosi a proporre prodotti o servizi al consumatore finale.

Invero, poiché il suggerimento di acquisto è rivolto direttamente al consumatore medio persona fisica, in questo caso sarà quest’ultimo che, in base alla propria percezione del segno e ad altri parametri non specificatamente individuati, sceglierà liberamente il bene da acquistare.

La dottrina, infatti, rileva come la condotta attiva del soggetto fisico escluda in questi casi ogni responsabilità in capo al software adibito a “commesso” di vendita. 

A conferma di quanto esposto vi è la giurisprudenza della Corte di Giustizia, dalla quale si evince, sin dal caso Google France, che un motore di ricerca che offra il potenziamento degli annunci a partire da parole chiave corrispondenti a marchi d’impresa, non pone in essere un uso illecito del segno distintivo.

Tutt’altro quesito, per contro, suscita l’acquisto interamente automatizzato, cioè l’acquisto in cui la stessa l’Intelligenza Artificiale opera come consumatore medio. In un contesto del genere la destinataria finale autorizza il gestore del sistema all’esecuzione automatica dell’acquisto, non assumendo alcun ruolo rispetto alla singola decisione.

La questione se in tal contesto l’Intelligenza Artificiale possa incappare nella confusione tra segni esattamente come un essere umano, con tutte le conseguenze che ne derivano, appare allo stato fumosa, in quanto la giurisprudenza ha sempre tenuto conto solo dei fattori riconducibili a difetti cognitivi umani. Si ricordi, infatti, che la distintività di un segno è principalmente ricondotta alla percezione che la persona fisica ha dello stesso, e dunque ad un fattore squisitamente umano.

Pare chiaro, dunque, che il particolare contesto in cui l’acquisto viene effettuato necessiti dell’elaborazione di fattori del tutto nuovi, in grado di leggere il comportamento informatico.

A tal proposito, la dottrina ha ipotizzato un esame giudiziale degli algoritmi e dei fattori presi in considerazione dalle intelligenze artificiali operanti nel ruolo di consumatore medio, di modo tale da sostituire il vecchio parametro dell’acquirente persona fisica con il nuovo parametro del soggetto “entità informatica”.

Un simile modus operandi, tuttavia, stenta ancora ad essere attuato dalla maggior parte delle Corti, che dovranno tuttavia porsi, presto o tardi, nell’ottica di un’analisi del tutto svincolata da parametri di giudizio tipici umani,  per incentrarsi, più opportunatamente, sui nuovi parametri di giudizio propri dell’era digitale.


FONTI:

  • C. Galli “Le sfide del commercio elettronico al sistema della moda” in Il Dir. Ind. 2013, 4, 342;
  • D. Arcidiacono “Gli atti di sfruttamento dei marchi da parte delle intelligenze artificiali. Prime riflessioni” in AIDA 2018, 150;
  • Ricolfi “Trattato sui marchi”, II, Torino 2015, 1117 ss;
  • F. Stefani “Profili di illiceità dell’uso del marchio altrui come parola chiave nella pubblicità su Internet: note a margine della sentenza Interflora” in Riv. Dir. Ind. 2012, II, 100;
  • Nota a Corte di Giustizia UE, 23 marzo 2010 (cause riunite C-236/08 e C-238/08), Google France Sarl e Google Inc. c. Louis Vuitton Malletier SA et al. in Giur. Ann. Dir. Ind., 2010, 1158 ss;
  • Nota a Corte di Giustizia UE, 12 luglio 2011 (C-324/09), eBay in Giur. Ann. Dir. Ind., 2011, 1579 ss;
  • Nota a Corte di Giustizia UE, 22 settembre 2011 (C-323/09), Interflora in Giur. Ann. Dir. Ind., 2013, 1291 ss.

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