Tutto ciò che non sapevi sulle fake news
di Riccardo Giacobbi e Mattia Caiazza
Profili socio-politici del fenomeno delle fake news
di Riccardo Giacobbi
E’ il 31 marzo 2009 e il The Guardian celebra la morte del compositore Maurije Jarre riportandone la massima “Music is how I will be remembered. When I die there will be a final waltz playing in my head, that only I can hear”.
La frase rimbalzerà in tv, alla radio, in rete e verrà citata nei c.d. coccodrilli di altri grandi testate. Peccato che il celebre musicista mai aveva pronunciato tali parole. In realtà, erano state inserite dallo studente irlandese Shane Fitzgerald nella pagina di Wikipedia dedicata all’artista francese giustappunto a poche ore dal decesso.
Esperimento tremendamente riuscito; risultato tremendamente significativo.
Infatti, si annoti che la disinformazione non risulta ad esclusivo appannaggio di beceri gruppi Facebook o piccoli siti in cerca di visibilità e, dunque, non galleggia (o aleggia) soltanto nel mondo informativo di bassa lega.
Le reazioni
Il problema delle fake news, come è noto, non è tanto la loro origine, quanto il loro diffondersi. Condivisione dopo condivisione, like dopo like acquisiscono capacità persuasiva e, entrate nel circolo informativo digitale, diventano notizie a tutti gli effetti [1].
Poi, eventualmente, arriva la smentita, la replica, il chiarimento, azioni che però – non raramente – si rivelano addirittura controproducenti, offrendo ancor più visibilità alle medesime; ed ormai il fatto, vero o falso che sia, accede al flusso informativo, attirando l’attenzione dell’opinione pubblica [2].
A riprova della portata della problematica, si riporta un estratto delle parole pronunciate il 26 aprile 2018 dal commissario UE alla sicurezza Julian King: “The internet has provided us with incredible opportunities; but, as is becoming ever more apparent, it also has a flip – darker – side.”, affermando che i paesi europei “need to squeeze the space malicious actors currently employ to spread disinformation, by urgently reinforcing transparency, traceability and accountability online. Citizens should be able to know where the information they are seeing online comes from, who is funding it, and why it is being presented to them, so that they can make an informed decision about whether to take it at face value”.
Il tema è stato discusso sia nelle aule parlamentari di Bruxelles che dalla Commissione UE, la quale è arrivata a formulare un codice di condotta per i social network, in quanto, come è noto, si appalesano quali ideali casse di risonanza per le bufale: serio monitoraggio del fenomeno del click-baiting [3], riduzione del targeting per il c.d. marketing politico [4], lotta ai profili falsi, troll e bot [5] che diffondono fake news, garanzie di trasparenza dei contenuti sponsorizzati, creazione di strumenti di segnalazione delle notizie false, supporto ai soggetti ricercatori nell’analisi della disinformazione.
A dir la verità, già da tempo il colosso di Zuckemberg sta tentando di arginare la proliferazione delle fake news sulla propria piattaforma con sistemi più o meno efficaci di sorveglianza: ad esempio, coinvolgendo soggetti terzi che pongano in essere il c.d. fast checking ovvero chiedendo agli stessi internauti feedback che possano generare un modello di apprendimento automatico in grado di rilevare le notizie false [6].
In aggiunta, laddove il Provider dovesse accertare la falsità della notizia, non procederebbe alla rimozione, ma, invece, ne ridurrebbe la diffusione in modo significativo mostrandola in una posizione marginale nella sezione Notizie. Una soluzione condivisibile poiché esclude ogni fisiologico rischio di natura censoria.
Marketing politico e dintorni
L’avvento delle nuove tecnologie ha sparigliato le carte sulla tavola dell’informazione, la quale non è più gestita soltanto dai giornalisti. Ora chiunque può produrre e diffondere il dato informativo: mentre alcuni – una minoranza specializzata – operano mediante specifici siti (infra, “Le fake news come fonte di reddito”), la stragrande maggioranza agisce per mezzo dei social network, di regola con la condivisione o la mera approvazione (like o commento).
In tale panorama, ove il principio della c.d. net freedom trova la sua massima estrinsecazione, il singolo seleziona e ripubblica notizie e dati di ogni sorta.
Ma se al principio della catena disinformativa – il cui prosieguo (re-post dell’internauta) pare evidentemente inevitabile stante l’architettura della rete ed in particolare dei social – si celassero soggetti mossi da secondi fini?
Intenti diffamatori a parte, a cui si applica il dettato di cui all’art. 595 c.p., e prescindendo da derive satiriche [7], la vexata questio risiede nell’attività di disinformazione mirata all’indirizzo politico, ovvero a quella finalizzata al lucro derivante dall’advertising online, di cui si dirà più avanti.
Per quanto concerne il primo scenario, è opportuno fare una premessa.
La potenza della rete internet è fuor di dubbio e, in funzione di essa, sono comprensibili le posizioni di coloro i quali, sin dagli albori dell’inarrestabile successo del web, hanno posto in risalto i rischi del c.d. internet power.
Tra l’altro, attualizzando la definizione aristotelica dell’uomo quale animale social(e), sono, in effetti, i più recenti sviluppi – in più ambiti – ad avvalorare tali paradigmi: il marketing online è, difatti, divenuto centrale, in primis allo scopo di ottenere consenso politico (Podemos e Movimento 5 Stelle per fare degli esempi concreti e vicini a noi).
Un arguto Autore [8] segnala come, a ben osservare la condotta dei cittadini sui social, si rileverebbero continue violazioni della segretezza del voto dato che “ogni like che lasciamo sui social sarebbe un tassello in un’autoschedatura volontaria di massa, che finirebbe per offrire opportunità e poteri a chi vuole orientare le opinioni”. Lo stesso giurista evidenzia che, secondo gli eloquenti risultati delle ricerche di esperti del settore, sarebbe possibile, registrando like ed attività online, individuare colore della pelle, orientamento sessuale, orientamento politico dell’internauta oggetto di valutazione [9].
Premesso ciò e tornando al tema delle fake news, è chiaro che i canali ove le stesse si propalano sono ben diversi rispetto al passato.
La c.d. disinformation, se calata, poi, in un contesto culturale claudicante, finisce per aggravarne lo stato ed ivi prolifera, falsando la formazione delle opinioni dei cittadini.
Di conseguenza, saranno quelle notizie artatamente concepite da lobbies e poteri di varia provenienza, orientate a manipolare l’opinione pubblica ed influenzare le agende pubbliche, a rilevare ai fini di una prospettiva de iure condendo. Anche perché, de iure condito, esistono già – si vedano, tra gli altri, il reato di diffamazione, di istigazione o di procurato allarme, ovvero ancora le norme sulla responsabilità del Provider – regole efficaci [10].
Inoltre, risulta talvolta complicato rinvenire il bene giuridico di cui l’ordinamento dovrebbe farsi carico con una eventuale normativa ad hoc sulle fake news [11].
Ogni attività ermeneutica e, se necessaria, di produzione normativa dovrà anzitutto chiarire tassonomia e definizioni del fenomeno, per poi configurarsi in maniera – e ciò è cruciale – pienamente consonante e conforme ai principi in gioco.
Si diceva del contesto culturale, qui inteso come preparazione, consapevole partecipazione, iniziativa ed attenzione alla formazione dell’individuo della nostra comunità: insomma, probabilmente la soluzione sta a monte e verosimilmente, quindi, non meriterebbe siffatti sforzi nominalistici ed interpretativi ai fini di un eventuale intervento legislativo.
Web identity e disinformazione
Anche perché, seguendo il fil rouge argomentativo, se, per un verso, il tema sembra ingenerare preoccupazioni finanche eccessive, per altro verso, pare essere spesso trascurato un altro risvolto concreto del fenomeno: gli effetti della disinformazione sui consumatori ed i relativi danni reputazionali a carico dei brand.
Più precisamente, si evidenzia come le grandi società investano moltissimo nello sviluppo e nella tutela della propria web identity: la condivisione costante sui social networks, a stretto contatto con gli utenti finali, comporta un incremento dei rischi di nocumento all’immagine. Infatti, una notizia inveritiera, divenuta virale e/o condivisa da una fonte ad alto livello di influenza, unitamente ad una diffusione in un’area ove il determinato contenuto falso è suscettibile di attecchire maggiormente, genera danni reputazionali gravissimi e, viceversa, altera il mercato ed i convincimenti dei consumatori, con ogni effetto negativo che ciò comporta.
Senza affrontare ulteriormente le implicazioni anche economiche del fenomeno delle fake news, concludendo, si segnala che pare anzitutto emergere una confusione tra i piani di analisi: notizie inventate a fini propagandistici (c.d. misinformation) sono una cosa, l’informazione sensazionalistica è un’altra, come allo stesso modo debbono essere tenute ben distinte le bufale a fini diffamatori e quelle finalizzate meramente alla pratica del click-baiting. Attualissima casistica, afferente i profili lucrativi della creazione di fake news, che verrà trattata, unitamente ad un inquadramento giuridico della questione, nella prossima parte.
Conseguenze legali della creazione e condivisione di “fake news”
di Mattia Caiazza
Dopo l’attenta analisi dei profili socio-politici di questo fenomeno, è utile fare un’analisi anche degli aspetti legali, prima, ed economici, poi, per avere un quadro completo riguardo a tutto ciò che riguarda le “bufale”. Gli aspetti legali, soprattutto, vengono spesso considerati poco rilevanti, anche a conseguenza della minor serietà che aleggia intorno ai post dei social network.
Le piattaforme tramite le quali queste “notizie false” trovano la maggior diffusione sono, per l’appunto, i social network e soprattutto il loro capostipite, nel modo in cui li intendiamo oggi, ovvero Facebook; tutti noi ci siamo imbattuti almeno una volta in una di queste notizie e abbiamo potuto constatare che sia il numero delle loro condivisioni che quello dei “like” è sempre molto alto, nonostante spesso si tratti palesemente di eventi inventati o frasi mai dette. Nasce quindi spontaneamente una domanda: non esiste alcuna ripercussione legale per coloro che creano queste “bufale”? E per coloro che le condividono?
Le due questioni meritano di essere trattate separatamente.
Riguardo agli autori di fake news non esiste, ad oggi, in Italia, una normativa ad hoc [12], per sanzionare coloro che inventano la notizia falsa e sono quindi i primi a metterla in circolazione; esiste però un disegno di legge che attualmente è in attesa di essere discusso in Senato, il n°2688, che, se approvato, andrebbe ad espandere il codice penale con tre nuovi articoli la cui ratio normativa sarebbe proprio quella di porre un freno sanzionatorio alla pubblicazione e diffusione di notizie false [13]
Il fatto che le fake news non siano (ancora) oggetto di una legge specifica, non significa che non possano diventare rilevanti come mezzo tramite il quale integrare le ipotesi di reati più gravi, e in particolare possono certamente diventare il medium tramite il quale macchiarsi di:
- Diffamazione aggravata, ai sensi dell’ 595 c.p. terzo comma “se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei a tre anni o della multa non inferiore a € 516”
- Pubblicazione o diffusione di notizie false…atte a turbare l’ordine pubblico, ai sensi dell’ 656 c.p.
- Procurato allarme presso l’Autorità, ai sensi dell’ 658 c.p. “chiunque, annunziando disastri, infortuni o pericoli inesistenti, suscita allarme presso l’Autorità, o presso enti o persone che esercitano un pubblico servizio, è punito con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda da € 10 a € 516”
- Abuso della credulità popolare ai sensi dell’ 661 c.p. “chiunque, pubblicamente cerca con qualsiasi impostura,…, di abusare della credulità popolare è soggetto, se dal fatto può derivare un turbamento dell’ordine pubblico, alla sanzione amministrativa pecuniaria da € 5.000 a € 15.000”
- Rialzo o ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio ai sensi dell’ 501 c.p. “Chiunque…pubblica o altrimenti divulga notizie false, esagerate o tendenziose o adopera altri artifici atti a cagionare un aumento o una diminuzione del prezzo delle merci,…, è punito con la reclusione fino a 3 anni e con la multa da € 516 a € 25.822”
Come è ben evidente dalla lista dei reati che potrebbero commettersi tramite la pubblicazione di una fake news, i risvolti penali ci possono essere e possono essere dei risvolti importanti, soprattutto dal punto di vista della pena. Ma chi invece la notizia si è limitato a condividerla? Soggiace alla stessa imputazione dell’autore principale? Il discrimine in questo caso è dato dall’aggiunta o meno di un commento al post condiviso e dalla consapevolezza, o meno, della falsità della notizia da parte del condivisore.
Prendiamo come esempio una falsa notizia diffamatoria e vediamo le possibili conseguenze alla sua condivisione:
- Condivido la notizia e aggiungo un commento denigratorio/atto a sottolineare il carattere malevolo/falso della “news”: in questo caso si compie lo stesso reato di colui che l’ha creata; se però si dimostra di aver solamente voluto esprimere una proprio opinione sulla base di una notizia che appariva verosimile, non sapendo, quindi, che la notizia non era veritiera, si può evitare di incorrere nell’illecito.
- Condivido la notizia senza commentare alcunché: anche in questo caso il discrimine tra reato e non è dato dalla consapevolezza della falsità della notizia, che andrà verificato caso per caso (se una fake news è palesemente non vera perché contiene elementi al limite dell’inverosimile, non sarà possibile addurre questa scusante)
Le fake news come fonte di reddito
Dopo aver analizzato quali possano essere le conseguenze legali delle “bufale”, viene da chiedersi il perché queste vengono create. Sono semplicemente un modo per seminare odio e disinformazione a danno di soggetti politici o gruppi etnici “antipatici” all’autore? Sono solo un mezzo per gettare discredito su gruppi o persone che il creatore di fake news vuole denigrare? Oppure, come sempre è in questi casi, esiste anche un risvolto economico che fa sì che “il gioco valga la candela”? Ovviamente esiste una possibilità di guadagno grazie a questo finto giornalismo.
In un’intervista de L’Espresso a Gianluca Lipani, il ragazzo catanese dietro al noto sito di “bufale” Senzacensura.eu, viene messo in luce molto bene il processo che porta queste notizie ad essere condivise, a diventare virali e, di conseguenza, ad essere fonte di guadagno per il loro autore.
Il meccanismo è molto semplice: appoggiandosi a Google AdSense, oppure a servizi simili, più visite si ricevono (e di conseguenza più visualizzazioni ricevono le pubblicità presenti sul blog di fake news), più i guadagni per l’autore sono maggiori.
Lipani nell’intervista racconta che i guadagni possono essere di circa 2€ ogni mille visite ad una notizia e, detto così, non sembra granché; se si guarda però alla mole di notizie pubblicate e ai numeri delle condivisioni e “like” che ricevono questo tipo di news, è facile capire che i guadagni possono facilmente e potenzialmente essere pari a quelli di uno stipendio [14].
Ma se la creazione e la condivisione di queste notizie può integrare un’ipotesi di reato, i guadagni che da esse derivano possono essere leciti?
Molti dei servizi che permettono di guadagnare grazie alle pubblicità sul proprio sito hanno dei termini di servizio che delimitano i contenuti concessi, ma, fintantoché non viene rilevata una violazione delle regole, il servizio continuerà a funzionare normalmente. Una volta venuta alla luce la violazione la conseguenza sarà il ban e l’interruzione dell’utilizzo del servizio, senza che ci sia però nessun tipo di risvolto legale sui guadagni già avvenuti.
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[1] E’ stato rilevato che su Twitter le fake news circolano circa sei volte più velocemente rispetto alle notizie fondate, presentando il 70% in più di probabilità di essere condivise. Un dato che emerge dall’analisi del Massachusetts Institute of Technology (Mit), su 126.000 tweet pubblicati da 3 milioni di persone e ritwittati oltre 4,5 milioni di volte.
[2] E magari per taluni utenti la negazione da parte del sistema non fa altro che dimostrarne la fondatezza.
[3] Contenuto web la cui principale od unica funzione è quella di attrarre il maggior numero possibile di utenti e, grazie al traffico, generare rendite pubblicitarie online.
[4] I dati immessi online (quelli personali ma anche, e soprattutto, mi piace, condivisioni, commenti) dall’utente permettono la profilazione; si tratta di preziosi elementi per coloro che operano nel settore delle campagne elettorali online.
[5] Account automatici (dunque falsi) che condividono la notizia amplificandola.
[6] Per il social network “La riduzione della diffusione delle notizie false su Facebook è una responsabilità molto importante per noi. Riconosciamo anche che si tratta di un tema complesso e delicato. Desideriamo aiutare le persone a rimanere informate senza ostacolare un produttivo dibattito pubblico.” Segnala poi che “Blocchiamo gli incentivi economici a persone, pagine e domini che diffondono disinformazione. Collaboriamo con accademici e altre organizzazioni per affrontare questo tema complesso.” (Standard della Community)
[7] In taluni casi la qualificazione di una notizia non è agevole, in particolare con riguardo al discernimento rispetto alla satira. Si aggiunge che, invece, non pare applicabile l’esimente dell’esercizio del diritto-dovere di cronaca, stante la fisiologica assenza del requisito della verità (oggettiva o putativa che sia).
[8] T. E. Frosini, Internet e democrazia, Diritto dell’informazione e dell’informatica (Il), fasc. 4-5, 1 ottobre 2017, pag. 657.
[9] Tra gli altri, Youyou, W., Kosinski, M., & Stillwell, D. (2015) Computer-based personality judgments are more accurate than those made by humans. Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), 2015.
[10] Tra l’altro, i soggetti eventualmente lesionati dalla pubblicazione e diffusione di una notizia falsa potranno agire in sede penale in virtù dei menzionati riferimenti normativi (in primis per il reato di diffamazione aggravata), ovvero in sede civile per il risarcimento dei danni (pregiudizi patrimoniali ex art. 2043 c.c. e non patrimoniale ex art. 2059 c.c).
[11] La quale, inoltre, da ogni prospettiva la si analizzi, potrebbe presentare un fumus di illegittimità costituzionale.
[12] Esiste, invece, ed è entrata in vigore in Germania una legge di questo stampo; per approfondimento si consiglia la lettura dell’articolo di Paolo di Marcantonio.
[13] I tre articoli che verrebbero introdotti sarebbero rispettivamente l’art.656-bis “Pubblicazione o diffusione di notizie false, esagerate o tendeziose, atte a turbare l’ordine pubblico, attraverso piattaforme informatiche”, l’art.265-bis “Diffusione di notizie false che possono destare pubblico allarme o fuorviare settori dell’opinione pubblica” e l’art.265-ter “Diffusione di campagne d’odio o volte a minare il processo democratico”
[14] L’articolo più proficuo di Senzacensura.eu ha raggiunto 8 milioni di visualizzazioni per un guadagno, solo per quella notizia, di 16.000€