Dal marchio come indicatore di provenienza al marchio come strumento di comunicazione: l’evoluzione storica della funzione giuridica, economica e sociale del marchio nel sistema ante e post riforma del 1992
di Roberta Mazzucconi
“Non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni privi di carattere distintivo […]”[i]. L’art. 13 del Codice della proprietà industriale, norma cardine attorno cui ruotano tutte le disposizioni in materia di validità del marchio, definisce, al primo comma, il requisito della capacità distintiva del marchio come elemento essenziale dello stesso.
Autorevole dottrina ha rilevato come un segno sia dotato di capacità distintiva “quando venga percepito dallo specifico pubblico cui i prodotti o servizi contrassegnati sono destinati come segno che denota l’origine del prodotto o servizio da un determinato imprenditore”[ii]. Ed infatti, l’art. 2569 c.c., in materia di “diritto di esclusività”, non a caso, attribuisce al titolare del marchio registrato nelle forme stabilite dalla legge il diritto di valersi dello stesso in modo esclusivo, per i prodotti o servizi per i quali è stato registrato, a condizione che il marchio sia “idoneo a distinguere prodotti o servizi”.
Nel paradigma classico, relativo ai capisaldi del sistema di tutela del marchio antecedenti la riforma del 1992[iii], dunque, la funzione giuridicamente protetta del marchio – inteso quale diritto che attribuisce al titolare un’esclusiva su un segno – viene identificata essenzialmente nella sua funzione distintiva. Tale funzione, come emerge dalle disposizioni innanzi citate, risulta essere intimamente connessa con la funzione di indicazione di provenienza dei prodotti o servizi da una determinata fonte imprenditoriale, rispetto a quelli provenienti da altre imprese[iv]. La funzione distintiva e la funzione di indicazione di provenienza sono, d’altra parte, garantite dall’attribuzione, al titolare del marchio registrato, di un diritto di esclusiva, ossia di un essenziale diritto monopolistico sul segno distintivo, segno che risulta avere la caratteristica della distintività proprio in quanto riconducibile ad un unico e determinato imprenditore.
Il modello classico, sorretto dal principio “un marchio, un’impresa”, imponeva dunque, come corollario, il divieto di trasferire il marchio disgiuntamente all’azienda di appartenenza, nonché il divieto di concedere licenze non esclusive a terzi. La ratio di tale divieto, di cui all’art. 15 della legge marchi n. 929 del 1942, era principalmente volta a garantire la tutela del consumatore contro un uso del marchio ingannevole. Ed infatti, il testo dell’art. 15 della legge marchi del ’42 recitava: “Il marchio non può essere trasferito se non in dipendenza del trasferimento dell’azienda, o di un ramo particolare di questa, a condizione, inoltre, che il trasferimento del marchio stesso avvenga per l’uso di esso a titolo esclusivo. In ogni caso, dal trasferimento del marchio non deve derivare inganno in quei caratteri dei prodotti o merci che sono essenziali nell’apprezzamento del pubblico”. In tale prospettiva risulta evidente come la funzione distintiva del marchio si specificasse non solo nella funzione di indicazione di origine del prodotto, ma anche in una funzione di “identità nel tempo, di costanza qualitativa e strutturale o merceologica dei singoli prodotti contrassegnati”[v].
Con l’attuazione della Direttiva 104/89/CEE sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi di impresa e l’emanazione del D.Lgs. 480/92, in attuazione della legge delega n. 142 del 1992, si è giunti ad un radicale punto di svolta. In primo luogo, la riforma, recependo gli orientamenti giurisprudenziali che avevano anticipato la tendenza all’allentamento tra il segno distintivo e la realtà aziendale di appartenenza, ha definitivamente scardinato lo stretto legame intercorrente, fino a quel momento, tra marchio e impresa e, come evidenziato da autorevole dottrina, “ha depotenziato la tutela concessa alla funzione di indicazione di provenienza e ha accordato alla funzione di garanzia di qualità ed alla funzione attrattiva un’attenzione che il sistema anteriore non riconosceva”[vi]. Con il venire meno del paradigma classico “un marchio, un’impresa”, infatti, si è assistito ad un profondo mutamento delle funzioni, della tutela e, in definitiva, dell’essenza stessa del marchio, il quale, svincolato dalla realtà imprenditoriale di origine, ha subito un progressivo processo di “smaterializzazione”, giungendo ad essere tutelato come un bene a sé. In particolare, infatti, la nuova disciplina, di cui all’art. 19 c.p.i., non subordina più la validità della titolarità del marchio al requisito del carattere imprenditoriale del soggetto intenzionato ad utilizzarlo: il diritto esclusivo sul marchio, pertanto, risulta, ora, essere indipendente dalla dissoluzione o dalla cessazione definitiva dell’attività di impresa eventualmente svolta dal suo titolare. Con riferimento al tema relativo alla circolazione e al trasferimento del marchio, occorre evidenziare come l’allontanamento dal sistema tradizionale, abbia poi segnato il passaggio dalregime di cessione vincolata ad un regime di cessione libera del marchio, così come previsto dall’attuale art. 23, c.p.i.[vii], ove il diritto di esclusiva ricadente in capo al titolare del marchio viene ad essere, ora limitato, ora ampliato, proprio mediante lo strumento contrattuale[viii].
L’eliminazione dello stretto legame tra marchio ed azienda e il radicale mutamento della natura stessa del marchio, tutelato non più necessariamente solo in quanto segno distintivo ed indicatore di provenienza da una determinata azienda, ma anche – e soprattutto – come bene giuridico dotato di un proprio valore, ha generato uno stravolgimento nell’ambito del sistema delle tutele previste nei confronti del consumatore. Ed infatti, il costante indebolimento della tradizionale funzione distintiva del marchio come indicazione d’origine dei prodotti da una costante fonte produttiva, aveva destato in dottrina non poche preoccupazioni, specialmente in riferimento all’ambito di tutela da accordare al consumatore, fino a quel momento riconosciuta esclusivamente contro il pericolo di confusione sull’origine del prodotto e contro l’uso ingannevole dei marchi.
Il passaggio al regime di libera cessione del marchio, ha, per l’appunto, causato il venire meno della garanzia di provenienza del prodotto da una determinata impresa, alimentando il rischio di inganno per il pubblico, non al corrente dell’avvenuta cessione. La riforma del 1992, ha ovviato ad un tale indebolimento della tutela del consumatore vietando le variazioni decettive ed assicurando un costante livello di tutela che la normativa precedente non assicurava. In particolare, è stata apprestata la sanzione della decettività sopravvenuta per le ipotesi di inganno al pubblico sulla natura, le qualità e l’origine dei prodotti[ix], la quale impedisce di modificare le caratteristiche dei prodotti, senza rendere note le variazioni al pubblico dei consumatori che risulterebbero altrimenti ingannati[x].
Alla luce di quanto rilevato fin qui è possibile, pertanto, notare come lo statuto di non decettività, rappresenti un correttivo al sistema e, permettendo di tutelare la veridicità dei messaggi comunicati dal marchio, fa sì che la sua originaria funzione distintiva si specifichi, oggi, in una “funzione di garanzia di conformità del prodotto al messaggio che il relativo marchio comunica al pubblico”[xi]. Tale aspetto, assume particolare importanza laddove si consideri che, come è stato efficacemente rilevato da autorevole dottrina, il segno distintivo, a seguito della riforma, “può nascere anche prima ed indipendentemente da qualsivoglia entità aziendale produttiva, può essere tutelato anche fuori da precisi confini aziendali, può circolare separatamente dal – ed anche in assenza di un qualsiasi – nucleo produttivo originario, può sopravvivere, infine, al dissolversi dell’azienda e dell’impresa.”[xii]
Il processo di “deriva” del marchio dalla tipica funzione distintiva e la progressiva tendenza all’astrazione del marchio stesso dal contesto aziendale di provenienza, a seguito della riforma, hanno infatti dato origine ad un fenomeno di “smaterializzazione” del marchio[xiii]. Tale fenomeno, asse portante delle novità introdotte con la riforma, è caratterizzato dalla valorizzazione del marchio come bene autonomo, immateriale, tutelato, per la prima volta, come bene giuridico in sé e per sé[xiv]. Ciò in quanto è stato valorizzato e riconosciuto il valore commerciale insito nel marchio, inteso, nella attuale concezione, anche come un bene autonomo dotato di un proprio potere attrattivo, potere sfruttabile, come innanzi rilevato, anche indipendentemente ed a prescindere dalle vicende dell’azienda di origine dei prodotti[xv]. Il legislatore della riforma, infatti, riconoscendo il marchio come “simbolo” dotato di un valore suggestivo, capace, cioè, di comunicare al pubblico un messaggio ed in particolare capace di evocare immagini gratificanti per gli acquirenti dei prodotti e servizi contraddistinti dallo stesso, ha scelto di conferire una tutela giuridica anche al valore commerciale e di mercato del marchio – il c.d. “selling power”– inteso appunto come “strumento di comunicazione”[xvi]. È stato tuttavia evidenziato come il riconoscimento giuridico di una tutela allargata del marchio, ossia di valori ulteriori – quali il valore evocativo – rispetto a quello tradizionale relativo all’identificabilità sul mercato, abbia portato all’ammissione che la scelta d’acquisto dei consumatori possa operare anche sulla base di elementi irrazionali e di mera suggestione[xvii].
In tale prospettiva, l’approccio c.d. “market oriented” della tutela del marchio, si pone come guida interpretativa della Direttiva e del codice di proprietà industriale, valorizzando tutti gli elementi della fattispecie concreta che sono legati all’effettiva percezione dei segni distintivi da parte del pubblico[xviii].
Bibliografia
[i]Cfr. art. 13, Codice della proprietà industriale, D.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30.
[ii]In tal senso, Vanzetti A. – Di Cataldo v., Manuale di diritto industriale, Giuffrè Editore, Milano, ed. 2005, 150 e ss.
[iii]Il d.lgs. n. 480/1992 c.d. “riforma della legge marchi”, in attuazione della direttiva CEE n. 89/104, ha modificato in modo sostanziale la c.d. “legge marchi, r.d. n. 929/1942, abrogata definitivamente dal codice della proprietà industriale.
[iv]A tal proposito, l’art. 7, c.p.i, stabilisce che “Possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa tutti i segni suscettibili di essere rappresentati graficamente, in particolare le parole, compresi i nomi di persone, i disegni, le lettere, le cifre, i suoni, la forma del prodotto o della confezione di esso, le combinazioni o le tonalità cromatiche, purchè siano atti a distinguere i prodotti o i servizi di un’impresa da quelli di altre imprese”.
[v]Così, Vanzetti A. – Di Cataldo v., Manuale di diritto industriale, op. cit., pag. 154-155.
[vi]V. Di Cataldo A., I segni distintivi, Milano, Giuffrè, 1993, p. 20.
[vii]L’art. 23 c.p.i. dispone, al comma 1 e 2 che “1. Il marchio può essere trasferito per la totalità o per una parte dei prodotti o servizi per i quali è stato registrato. 2. Il marchio può essere oggetto di licenza anche non esclusiva per la totalità o per parte dei prodotti o dei servizi per i quali è stato registrato e per la totalità o per parte del territorio dello Stato, a condizione che, in caso di licenza non esclusiva, il licenziatario si obblighi espressamente ad usare il marchio per contraddistinguere prodotti o servizi eguali a quelli corrispondenti messi in commercio o prestati nel territorio dello Stato con lo stesso marchio dal titolare o da altri licenziatari”.
[viii]In senso critico, si veda, ex plurimis, Vanzetti A., La funzione del marchio in un regime di libera cessione, in Riv. Dir. Ind., 1998, I, 81 ss., il quale, con riferimento al passaggio relativo al regime di trasferimento del marchio avvenuto con la riforma, esprimeva perplessità in tal senso: “sarebbe appunto un’insostenibile contraddizione, o un non senso, il sostenere da un lato che la tutela del marchio è condizionata ad una confondibilità sull’origine, e dall’altro che esso non ha la funzione di garantire appunto al pubblico un’origine costante dei prodotti da una determinata impresa.”
[ix]La riforma della legge marchi del 1992 ha introdotto l’art. 26, lett. b), c.p.i. che sancisce la decadenza del marchio per illiceità sopravvenuta, richiamando l’art. 14, comma 2°, lett. a), c.p.i., ai sensi del quale: “Il marchio d’impresa decade: a) se sia divenuto idoneo ad indurre in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi, a causa di modo e del contesto in cui viene utilizzato dal titolare o con il suo consenso, per i prodotti o servizi per i quali è registrato”.
[x]In materia di decadenza del marchio per decettività sopravvenuta, cfr. Corte di Giustizia UE, 30 marzo 2006, C. 259-04 (Elisabet Emanuel).
[xi]Vanzetti A. – Di Cataldo v., Manuale di diritto industriale, op. cit., pag. 157.
[xii]Cavani G, La nuova legge marchi commento generale, in Ghidini G. (a cura di), La riforma della legge marchi, Padova, Cedam, 1995, p. 7.
[xiii]AA. VV. Ghidini G. – Cavani G. (a cura di), Lezioni di diritto industriale, op. cit., pag. 63.
[xiv]Ghidini G. – Cavani G., Presupposti e portata della tutela dei marchi dotati di rinomanza,in Riv. Dir. Ind., 2017, Parte I, p. 70 e ss.
[xv]Riguardo le funzioni assolte dal marchio, cfr. Vanzetti A., in Funzione e natura giuridica del marchio, in Riv. Dir. Comm., 1961, I, il quale riteneva che la funzione distintiva era l’unica ad essere tutelata dalla legge e che non sussistevano ragioni tali da giustificare una interpretazione evolutiva della nozione di funzione che consentisse di estenderla anche ad altre funzioni, tra cui quella di suggestione.
[xvi]AA. VV. Ghidini G. – Cavani G. (a cura di), Lezioni di diritto industriale, op. cit., p. 65, i quali evidenziano come, in tale prospettiva, il marchio cessi di essere strumento di consapevole scelta da parte dei consumatori, tale da favorire una selezione basata sui meriti delle imprese in competizione.
[xvii]Per una critica al riconoscimento di autonoma tutela, oltre che al valore d’avviamento e di clientela, anche al valore intrinseco di suggestione del segno, cfr. Vanzetti A, Funzione e natura giuridica del marchio, op. cit.
[xviii]Secondo Ghidini G. – Cavani G., Presupposti e portata della tutela dei marchi dotati di rinomanza, op. cit., p. 85, “il riconoscimento di diritti esclusivi riguarda risultati e strumenti obbiettivi del perseguimento di fini di utilità generale: è il trade off, scolpito così incisivamente, dalla Costituzione nordamericana, fra l’attribuzione di un (limited) monopolio privato (mezzo) e la realizzazione di un obbiettivo di interesse generale, la promozione del ‘progress of science and the useful arts’ ”.
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