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La disciplina del cybersquatting

di Giuseppe Marinelli

Esaminati i profili regolatori dei domain names, ricondotta tale figura nell’alveo dei segni distintivi non registrati ed individuata la modalità di registrazione dei medesimi, tocca ora approfondire la pratica abusiva che più di ogni altra ne ha rappresentato l’aspetto patologico: il cybersquatting (da squatter, ovvero occupante senza diritto) o domain grabbing (da to grab, ovvero arraffare).

In sostanza, si tratta della condotta di chi registra un nome a dominio senza disporre della titolarità del marchio ad esso corrispondente.

Di solito, il nome fraudolentemente registrato corrisponde a quello di noti segni distintivi, tecnicamente riconducibili alla categoria del marchio “rinomato”.

La finalità perseguita da chi effettua tale azione è generalmente quella di perseguire indebiti vantaggi dall’associazione tra il nome a dominio registrato (generalmente, popolare e riconosciuto come affidabile) ed il contenuto reale del sito internet. A tale risultato si perviene falsando il comportamento economico dei consumatori, indotti ad acquistare beni o servizi differenti da quelli realmente ricercati, ovvero a trarli in inganno, rendendoli soggetti passivi di phishing (per una esemplare analisi, https://www.cyberlaws.it/2018/phishing-cognitive-hacking/)

È evidente che tale comportamento impatti su differenti diritti ed interessi: ne è inficiato il mercato, il cui sistema concorrenziale viene esposto a pratiche commerciali scorrette; ne è leso il titolare del marchio, al quale viene preclusa la possibilità di registrare e di utilizzare il proprio domain name; ne sono lesi i consumatori, ingannati o truffati. Al contempo, viene agevolato il perseguimento di ingiusti profitti al cybersquatter.

La pluralità di categorie coinvolte determina un sistema di tutela composito che spazia dal diritto della proprietà intellettuale al diritto della concorrenza, passando per il diritto dei consumatori.

Orbene, l’art. 22 del Codice della proprietà industriale, nel disciplinare l’unitarietà dei segni distintivi, fa espresso divieto di adottare come nome a dominio di un sito usato nell’attività economica un segno uguale o simile all’altrui marchio, laddove possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico, causato anche della mera affinità tra l’attività di impresa dei titolari del marchio ed il nome a dominio adottato. Tale sistema di tutela affianca quella più ampia (cd. ultramerceologica) di cui gode il marchio che goda nello Stato di rinomanza (co. 2).

Il soggetto che si ritenga leso nei propri diritti e che voglia riappropriarsi dello spazio web di sua spettanza, potrà avvalersi di diversi rimedi: sia di carattere giudiziale, sia rientranti nelle cosiddette ADR (Alternative Dispute Risolution).

Tra i primi ricadono le fattispecie previste dal Codice della proprietà industriale agli articoli 118, che al comma 6 introduce il rimedio della revoca e del trasferimento del nome a dominio registrato in violazione dell’art. 22, e 133, che disciplina il rimedio cautelare dell’inibitoria e del trasferimento provvisorio. Senza scendere troppo in dettaglio, può dirsi che revoca e trasferimento differiscono poiché solo il secondo mezzo consente di assicurare al titolare del marchio l’uso effettivo del nome a dominio registrato contra legem, diversamente dal primo che mira unicamente a porre termine all’usurpazione del nome.

Particolare interesse, invece, rivestono gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie, nelle forme dell’arbitrato irrituale e della procedura di riassegnazione, da tenersi dinanzi al Registro Italiano (ente delegato dall’ICANN, cui compete l’aggiornamento di database dei nomi a dominio assegnati), in grado di conciliare effettività della tutela, speditezza della procedura e costi contenuti.

Accanto agli strumenti di protezione anzidetti, al titolare di marchio spetta altresì la tutela prevista dall’art. 2598 Codice Civile, a presidio degli illeciti concorrenziali, nonché la tutela risarcitoria di cui all’art. 125 CPI.

            Come visto, tuttavia, la cifra di illiceità della condotta del cybersquatter non si esaurisce nella lesione di interessi privati e pertanto necessita di presidi di carattere pubblicistico.

L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (sin d’ora AGCM) ha avuto modo di occuparsi della fattispecie de qua ed ha reputato la condotta del professionista, consistente nella registrazione ed utilizzazione di un nome a dominio, in assenza di qualunque rapporto con l’omonimo operatore, idonea ad assurgere a “pratica commerciale scorretta”, nella sub specie della pratica ingannevole, esplicitamente vietate ai sensi del Codice del Consumo (AGCM, 9 ottobre 2012 n. 23976).

In particolare, la condotta del cybersquatter è stata ritenuta sussumibile nelle fattispecie descritte agli artt. 20, comma 2, 21, comma 1, lett. f) e 23, lett. o) del Codice del Consumo, per le quali:

  • una pratica commerciale è scorretta se contraria alla diligenza professionale ed idonea a falsare il comportamento economico del consumatore medio (art. 20 co. 2);
  • una azione è ingannevole se idonea ad indurre in errore il consumatore medio in ordine alla natura, qualifica e diritti del professionista, quali l’identità, il patrimonio, le capacità, lo status, il riconoscimento, l’affiliazione o i collegamenti e i diritti di proprietà industriale, commerciale o intellettuale (art. 21 co. 1 lett f);
  • una azione è ingannevole ove volta a promuovere un prodotto simile a quello fabbricato da un altro produttore in modo tale da fuorviare deliberatamente il consumatore inducendolo a ritenere, contrariamente al vero, che il prodotto è fabbricato dallo stesso produttore (art. 23 lett. o).

La rilevata violazione ha indotto l’AGCM a disporre l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria di cui all’art. 27 Cod. Cons., nel caso quantificata nella misura di Euro 10.000,00.

L’apparente desuetudine del cybersquatting, la cui regolamentazione nelle aule di giustizia precede di gran lunga la positivizzazione nei termini sopra descritti, non deve trarre in inganno. Il fenomeno, invero, permane e si alimenta in considerazione dell’incremento delle relazioni economiche e commerciali online, che espone i consumatori-naviganti più inesperti a rischi spesso sottovalutati.


Bibliografia 

Aranguena G., “Nome a dominio e tutela del marchio verso la social property: il cybergrabbing come slealtà commerciale e il nuovo enforcement del diritto della concorrenza e dei consumatori”, in il diritto dell’informazione e dell’informatica, Anno XXVIII, Fasc. 6, 2013;

Capone F. “Phishing: identikit di un attacco di cognitive hacking”, in Cyberlaws, https://www.cyberlaws.it/2018/phishing-cognitive-hacking/;

De Luca G., “Il punycode, l’ultima frontiera del cybersquatting. Il caso ıĸea.com”, in Altalex http://www.altalex.com/documents/news/2018/02/02/il-punycode-l-ultima-frontiera-del-cybersquatting-il-caso-ikea-com;

Galli C. – Gambino A., Codice commentato della proprietà industriale e intellettuale, Torino, 2011;

Studio Trevisan & Cuonzo Avvocati, Proprietà industriale, intellettuale e IT, Assago, 2017.

 


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