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Cos’è il Bitcoin? Il ruolo del diritto nella regolamentazione delle criptovalute

di Alessio Azzariti

A Chicago, il 10 dicembre 2017 alle 5 p.m., mentre in Italia scoccava la mezzanotte, è stata aperta ufficialmente la negoziazione del primo future su Bitcoin in seno al Chicago Board Option Exchange. Questo è stato per molti un evento storico che ha determinato ufficialmente la consacrazione del Bitcoin come asset finanziario alternativo a quelli usuali.

Se attualmente il dibattito sull’esatta definizione di Bitcoin – e più in generale di criptovalute – è aperto, stabilirne dei confini precisi potrebbe essere di importanza fondamentale nell’ambito di un’inquadratura sistematica del fenomeno e della sua conseguente regolamentazione.

Le banche centrali, che stanno conducendo approfondimenti in materia attraverso dei gruppi di ricerca, paiono al momento lontane da una proposta di regolamentazione completa proprio per la difficoltà di un chiaro inquadramento giuridico.

È utile qui provare a tracciare una descrizione del fenomeno in ottica de iure condendo. L’orientamento maggioritario definisce le criptovalute come una specie del più ampio genere delle valute digitali, ossia quelle che nella definizione più classica non hanno un equivalente fisico. Anche la tradizionale “fiat money” nel momento in cui viaggia su circuiti digitali – e va sotto il nome di Digital Fiat Currency – è valuta digitale; ne costituisce quindi anch’essa una particolare specie.

Al di là delle definizioni, sia le valute digitali fiat sia le criptovalute hanno la caratteristica comune di essere beni immateriali aventi natura scritturale. La sostanziale differenza rispetto alla Fiat Currency consiste nel fatto che le criptovalute sono sostanzialmente emesse da privati e prive di autorità di regolamentazione in senso classico; questo poiché tali autorità sono rappresentate dagli stessi utenti che procedono allo sviluppo tecnico della medesima che viene sottoposto al giudizio del mercato, ossia della comunità che intende – o non intende – utilizzarla; occorre quindi, chiaramente, che un numero significativo di utenti ne acquisti e, soprattutto, ne faccia uso. Attualmente, tuttavia, appare difficile ritenere che le criptomonete siano valute in senso sostanziale a causa della loro eccessiva volatilità, ossia della carenza di stabilità del valore di scambio. Potremmo considerare come valuta in senso sostanziale quella valuta digitale in cui gli sviluppatori decidano di comportarsi similarmente ad una banca centrale, prevedendo un meccanismo atto a regolarne la quantità circolante e inteso ad ottenere una stabilità del valore. Bisogna però ricordare che la loro funzione sarebbe svolta in qualità di privati, di conseguenza, con interessi privati.

Uno dei tentativi di regolamentazione inteso a mantenere il cambio in parità col dollaro è avvenuto, ad esempio, con la criptovaluta Tether; quest’ultima ha però sollevato dubbi sulla sua tenuta per la presunta assenza della necessaria riserva in dollari sulla quale essa si basa, infatti della stessa non è stata ancora provata pubblicamente l’esistenza.

Anziché inquadrare il fenomeno all’interno di categorie già esistenti sarebbe opportuno prendere atto che ci si trova di fronte ad una nuova categoria di beni. Se ci si sforza infatti di utilizzare le vecchie categorie giuridiche si può procedere solo ad una definizione di criptovaluta per esclusione: non è infatti una valuta tradizionalmente intesa, né una commodity, né uno strumento di equity; sotto certi profili può però avere le caratteristiche delle precedenti in base all’utilizzo e alle qualità che la comunità degli utilizzatori ritiene di dargli. Sempre con riferimento a tale funzione attribuita dalla comunità, risulta che nella maggioranza dei casi l’intento degli investitori sia meramente speculativo, similmente a quanto avviene con i metalli preziosi quali l’oro e l’argento, ma anche con lo scambio di azioni sul mercato regolamentato.

Spesso una criptovaluta viene acquistata per le caratteristiche del progetto sottostante che ne può diffondere l’utilizzo e quindi aumentarne il valore (analogamente a quanto avviene con il business plan di un’azienda e l’emissione di azioni all’atto della sua costituzione). Oltre all’appena citato intento speculativo, possono aggiungersi altri scopi da parte degli utilizzatori: in alcuni casi a rilevare maggiormente è la rapidità delle transazioni (si pensi a valute come Litecoin o Ripple), in altri la tutela della privacy, con tutte le problematiche relative ad attività criminose determinate dalla totale anonimità della criptovaluta (si pensi, in tal senso, a Monero). Ancora, l’interesse potrebbe essere dato dalla semplice detenzione della criptovaluta intesa come asset patrimoniale; si pensi ad Ethereum che con l’implementazione della Proof of Stake darà una sorta di “dividendo” basato sul possesso continuato della valuta al fine di validare le transazioni di coloro che la scambiano. Il Bitcoin, invece, in questo momento e finché non vi saranno le modifiche necessarie da parte degli sviluppatori, viene utilizzato come riserva di valore – più che come mezzo di pagamento – in quanto l’attuale sovraccarico della rete per il grande numero di transazioni determina una lentezza delle stesse ed elevate commissioni. Al di là delle funzioni puramente speculative, le criptovalute possono essere anche un utile strumento per raccolte fondi relative a progetti senza scopo di lucro riguardanti istruzione e ricerca, come avviene nel caso della criptovaluta Einsteinium.

È un dato di fatto dunque che le criptovalute esistenti possano avere caratteristiche e scopi diversi tra loro, difficilmente inquadrabili con modelli del passato. Una possibile soluzione a livello legislativo sarebbe quella di prevedere una disciplina organica ad-hoc rivolta esclusivamente alla regolazione delle criptovalute, intese come valute digitali emesse da privati con mezzi informatici.

Ciò a prescindere dall’utilizzo che ciascuna comunità di possessori ne faccia.

L’impressione è che il ritardo del legislatore sia dovuto alla particolare complessità e alla rapidità di evoluzione del settore, che lo rende molto difficile da regolamentare. Un’altra importante esigenza, è quella di prevedere obblighi di trasparenza e di informazione in capo alle società o comunque ai soggetti promotori di ICO (Initial Coin Offering), a pena di sanzioni.

Nella maggioranza dei casi le ICO sono infatti vere e proprie truffe volte a racimolare risorse finanziarie senza che vi sia un vero progetto sottostante da sviluppare. Inoltre si dovrebbero prevedere obblighi di trasparenza, informazione e riserva frazionaria in capo agli exchanger che trattano la vendita e l’acquisto di valute digitali su Internet (operando in sostanza come banche) e all’interno dei quali si svolgono la maggioranza delle transazioni. Bisogna tuttavia chiarire che un numero consistente di transazioni avviene al di fuori del circuito degli exchanger, senza intermediazione alcuna (si pensi attualmente al sito Localbitcoins che permette l’acquisto di criptovaluta direttamente dall’individuo possessore); per di più, nulla esclude che con l’evoluzione degli smart contract in futuro si trovi il modo di realizzare lo scambio di criptovalute al di fuori da questo circuito tradizionale.

Il settore qui preso in considerazione ed il suo ulteriore sviluppo contengono in nuce una sfida alla sovranità degli stati nazionali, quanto meno con riguardo alla possibilità di questi ultimi di controllare la moneta. Il problema si inserisce in un più largo trend di deistituzionalizzazione iniziato negli anni ‘90 con la diffusione di Internet su larga scala, e che vede gli utenti raggruppati in comunità che sembrano avere ciascuna le sue regole. Ciò, sulla scia di quanto preconizzato da Santi Romano relativamente alla pluralità degli ordinamenti giuridici, ma con la differenza – rispetto alla teoria di Romano – che la globalizzazione ed in particolare l’avvento di Internet hanno reso sempre più difficile per lo stato ridurre ad unità gli elementi di cui è composto, ossia ridurre ad unità i vari ordinamenti giuridici attorno ai quali oggi comunità di soggetti si ritrovano grazie alla rete. Allo stesso modo diventa difficile per lo stato anche imporre sanzioni suscettibili di essere in concreto applicate. Le caratteristiche ontologiche del sistema negli scambi peer-to-peer (come nella blockchain di Bitcoin dove si è in presenza di “registri contabili distribuiti”) limitano infatti fortemente il potere coattivo dello stato che non è dotato di strumenti adeguati di intervento.


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